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Pubblicato il 29/11/2022

RASSEGNA STAMPA- LA REPUBBLICA INTERVISTA IL GENERALE PARACADUTISTA GIOVANNI IANNUCCI

la Repubblica ed. Nazionale
sezione: MONDO data: 29/11/2022 – pag: 1

Il comandante della missione

Il generale Iannucci “La nuova frontiera Nato è la stabilità dell’Iraq”

di Gianluca Di Feo
Si chiama Alleanza Atlantica, ma la sua frontiera adesso è in Iraq e si muove senza ripetere gli errori del passato: collabora con le autorità locali ed evita atteggiamenti che possano far pensare a un intervento armato occidentale. «Il nostro è un modello completamente nuovo per la Nato.

Siamo a Bagdad per aiutarli: la missione è percepita bene dalla politica e dalla popolazione perché è piccola, agile, non combattente ed è qui su loro invito. Questo è un vantaggio che non va perso».

Il generale Giovanni Iannucci, ex numero uno della Folgore, da sei mesi comanda la missione incaricata di assistere le istituzioni irachene e sottolinea «il livello delle relazioni che abbiamo stabilito con le controparti irachene, sia militari che politiche. E soprattutto la chiarezza degli obiettivi. Ho molti anni di carriera alle spalle e questa è un’operazione in cui gli obiettivi sono molto chiari e coincidono con quelli dell’Iraq: mettere le loro forze in condizione di garantire pace e stabilità».
Di fatto però voi presidiate il confine più difficile della Nato.
«Il nuovo concetto strategico dell’Alleanza, approvato lo scorso giugno nel summit di Madrid, guarda alla globalità delle minacce e fa riferimento proprio al Medio Oriente. L’avvicinamento strategico che c’è stato tra Mosca e Teheran, anche per effetto del conflitto ucraino, è chiaro e lo sentiamo pure noi, seppur indirettamente. Per questo stiamo sperimentando un approccio diverso: cerchiamo di anticipare le crisi. Sentiamo di proteggere il confine esterno della Nato, contribuendo da qui anche alla stabilità nei nostri Paesi. I governi contributori all’inizio erano riluttanti, adesso è nata la consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro e c’è un aumento del sostegno».
Il vostro contingente è molto limitato rispetto alle operazioni del passato in Afghanistan…
«Complessivamente siamo in 570, di trenta nazioni, della Nato ma pure di Australia, Svezia e Finlandia. Gli italiani sono un decimo del totale, coordinati dal Covi del generale Francesco Figliuolo. Molti i civili, perché abbiamo una forte interfaccia politica: negli scorsi giorni ho incontrato il premier e il presidente. Cresceremo di poco, fino a 650. Se mi dovessero offrire migliaia di persone direi di no: ne servono poche ma con esperienze e conoscenze mirate. Aumentando gli organici rischieremmo di alimentare una speculazione politica tra le fazioni irachene che vogliamo evitare a tutti i costi».
Lei è stato a Nassiriya nel 2005 con l’operazione Antica Babilonia. Quanto è cambiato l’Iraq?
«Tantissimo. Ho trovato un Paese voglioso di andare avanti, di progredire e trovare una pace stabile. Il capo di Stato maggiore mi ha detto che il suo obiettivo è avviare una relazione con noi di lungo periodo, strategica, fino a diventare partner della Nato. Il loro obiettivo è fare evolvere le forze armate, rendendole solide e affidabili perché è il modo migliore di tutelarsi da un’influenza esterna molto complicata da gestire».
Il loro esercito all’inizio è stato travolto dallo Stato islamico. Poi ha reagito e liberato Mosul. Oggi come giudica le loro capacità?
«Quello che ho visto, anche nei recenti scontri nella capitale e nelle manifestazioni di fine agosto, è stato un approccio efficiente.
Hanno gestito il pellegrinaggio di 21 milioni di fedeli che hanno visitato Kerbala e Najaf senza problemi.
Non siamo ancora dove vorremmo essere e c’è tantissimo da fare, ma li stiamo aiutando in tutti i settori: il reclutamento, l’intelligence, la formazione, i corsi di specializzazione. Non addestriamo unità complete, ma prepariamo i loro istruttori e trasmettiamo all’intero apparato militare una mentalità operativa».
Si parla spesso del rischio di una rinascita dell’Isis. È un pericolo reale?
«Ho rivolto la domanda al capo di Stato maggiore iracheno. Mi ha detto che in questo momento l’Isis non è pericolo strutturale: i jihadisti possono compiere attacchi ma non sono una minaccia significativa per istituzioni. Daesh non è stato sconfitto definitivamente: in Siria la situazione è differente, c’è la presenza di famiglie e di personale legato all’Isis nel campo di Al Hol e in altre strutture. Non c’è la paura che lì il fenomeno possa riprodursi con la stessa intensità, ma c’è una popolazione di giovani che vivono in povertà e potrebbero essere tentati dal terrorismo».
E in Iraq? Come cercate di prevenire il ritorno dello Stato islamico?
«Il contrasto diretto non ci riguarda: è compito della Coalizione internazionale contro l’Isis. Noi puntiamo sulla razionalizzazione dell’apparato di sicurezza: la priorità è mettere ordine tra le varie organizzazioni, tante, che fanno le stesse cose. Ad esempio, il ministro degli Interni e il comandante della Federal Police mi hanno detto di volere trasformare questa forza che ha combattuto Daesh sul campo in un’istituzione di polizia ad ordinamento militare: guardano al modello dei carabinieri, che sono ricordati con affetto e ammirazione per quello che hanno fatto in passato. Sarebbe un passo concreto e importante. E devo riconoscere che essere italiano qui rappresenta un valore assoluto: ti riconoscono un quid in più».
Lei è un paracadutista che ha vissuto tutta la storia delle nostre missioni all’estero: Somalia, Iraq, Afghanistan. Come si è trasformata la figura del soldato italiano?
«Sono stato due volte in Somalia ed era ancora l’epoca della leva: militari generosi che fecero il loro dovere. Qui vedo il modello italiano che compendia la professionalità di chi ha scelto questa vita con la capacità di leggere tra le righe la cultura del posto. Non abbiamo un approccio arrogante: non siamo in Iraq per insegnare, siamo qui per trovare insieme soluzioni e adattare i nostri modelli alla loro realtà. Le loro forze armate sono nate nel 1921, prima della Nato, e siamo nella culla della civiltà: una storia di cui gli iracheni sono orgogliosi».

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