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Pubblicato il 11/02/2014

RASSEGNA STAMPA: PARLA IL CAPITANO ( PAR) GIACOMO BRUNO FERITO A FARAH




CORRIERE DEL MEZZOGIORNO – BARI
sezione: Tempo libero data: 11/02/2014 – pag: 16
«Vi racconto la speranza e la morte a Farah»

di FRANCESCA MANDESE

Sono passati quattro anni e mezzo, ma non riesce ancora a parlarne. È lì per raccontare la sua storia, ma quando si tratta di ricordare quei terribili momenti, il bel volto giovane e sempre sorridente si rabbuia, lo sguardo si abbassa e su di lui cala come un’ombra scura e minacciosa. Da marzo del 2011, il capitano Giacomo Bruno, di Ceglie Messapica, 33 anni il prossimo maggio, è in servizio allo Stato maggiore della Scuola di Cavalleria di Lecce.

I due anni che hanno preceduto il suo ritorno in Puglia sono stati dedicati a rimettere in sesto il fisico e lo spirito, a riprendersi dallo choc subito in Afghanistan, a sanare le ferite del corpo e dell’anima di chi, come comandante, ha visto morire un proprio soldato commilitone ed è rimasto ferito insieme ad altri due colleghi. Lui è stato fortunato, la sua vita e la sua carriera vanno avanti. Il 29 gennaio scorso, insieme ad altri 38 tra militari e familiari di militari deceduti, ha ricevuto la medaglia d’oro di «Vittima del terrorismo». La cerimonia si è svolta a Roma, a Palazzo Barberini, nella sede del Circolo ufficiali, alla presenza dei sottosegretari alla Difesa e all’Interno e di alcuni alti ufficiali delle forze armate.

La scelta di Giacomo per la carriera militare nasce in modo un po’ diverso dai tanti altri figli del Mezzogiorno, costretti dalle necessità economiche o spinti da una tradizione familiare.

Per il capitano Bruno, tutto comincia con la passione per il paracadutismo. E comincia prestissimo, a 17 anni, quando supera brillantemente il concorso per entrare nella scuola navale militare collegio «Morosini» di Livorno. Finito il liceo, la sua formazione prosegue all’Accademia militare di Modena dove, al secondo anno, conquista uno dei due posti del Genio paracadutisti. Si laurea a Torino in Scienze strategiche e logistiche e la sua prima destinazione, nel 2005, è a Legnago, nell’8 Reggimento guastatori paracadutisti della brigata Folgore. Vi rimarrà fino al 2011.

«La mia prima missione all’estero – racconta -, è stata in Afghanistan, a Herat. Sono partito a luglio del 2006 e ho svolto compiti di sicurezza e di addestramento delle forze armate locali. Il nostro lavoro ci portava a essere spesso in contatto con la popolazione locale, con i capi-villaggio, a conoscere le loro usanze, oltre che a distribuire aiuti e fornire assistenza medica. Ricordo che, durante un’operazione di controllo del territorio, ci ha fermati un uomo con il figlioletto di 4-5 anni affetto da una grave insufficienza renale.

Il bimbo è stato curato dai nostri medici e non potrò mai dimenticare lo sguardo di gratitudine di quel padre». Al suo rientro in Italia, il capitano Bruno partecipa, nel 2008, alle operazioni di bonifica del territorio in seguito all’emergenza rifiuti scoppiata in Campania e poi all’operazione Strade sicure a supporto delle forze di polizia per combattere la microcriminalità. Nel 2009 arriva primo a un corso di specializzazione per la ricerca e bonifica di ordigni e, a marzo di quello stesso anno, ritorna in Afghanistan, destinazione Farah, a Sud-Ovest del paese. «Il mio mandato era di 7 mesi – racconta -, ma purtroppo è durato meno. In Afghanistan dovevano svolgersi le elezioni politiche, il clima era molto teso e noi eravamo in una zona particolarmente difficile.

Si susseguivano gli attacchi, non tanto perché eravamo italiani, ma in quanto rappresentanti delle forze Nato». Qui, il racconto si fa stentato, il ricordo doloroso.

«Eravamo in una base afghana al confine con Iran e Pakistan, io comandavo l’Advanced Combat Engineer Reconnaissance Team (ACRT), un’unità dell’Esercito specializzata nella ricerca e bonifica speditiva di ordigni improvvisati (Ied). Il 14 luglio, il nostro convoglio stava rientrando a Farah, dovevamo percorrere una cinquantina di chilometri attraversando anche qualche centro abitato. Eravamo una cinquantina di persone su una decina di mezzi e il Lince su quale viaggiavo insieme a tre paracadutisti commilitoni era alla testa del convoglio. Il nostro compito era proprio quello di controllare che non ci fossero ordigni o pericolo di agguati. Stavamo per scendere dal mezzo, quando un ordigno nascosto sotto la sede stradale ha fatto esplodere il blindato. Non ricordo quasi nulla perché ho perso i sensi. Il caporalmaggiore scelto Alessandro Di Lisio non ce l’ha fatta ed io, insieme agli altri due miei uomini, sono rimasto gravemente ferito».

I tre sopravvissuti vengono immediatamente trasferiti in elicottero in un ospedale da campo specializzato a Kandahar e da lì al Policlinico militare «Celio» di Roma. Per il capitano Bruno comincia un lungo periodo di convalescenza e riabilitazione. Fino alla nuova destinazione, a Lecce, che lo riporta in Puglia, vicino alla sua città e alla sua famiglia, dopo 14 anni di lontananza. «Il recupero fisico e psichico non è facile – confessa il capitano -, qui ho trovato un ambiente sereno che mi aiuta e poi, posso vedere più spesso la mia famiglia. Per me è un punto fermo molto importante». Con i due colleghi, ed ora amici, sopravvissuti all’agguato, Giacomo Bruno è ora in contatto anche nella vita privata, uno dei due l’ha invitato al suo matrimonio e sente spesso i familiari del commilitone rimasto ucciso. Per il capitano Bruno, probabilmente non ci saranno altre missioni all’estero e lui confessa di non averci più pensato, almeno per ora. I suoi familiari non hanno mai ostacolato le sue scelte. «Certo – dice -, mia madre, come tutte le mamme, è sempre stata in apprensione quando mi sapeva impegnato in esercitazioni di paracadutismo o in missione all’estero. Io ho sempre detto che tutto era tranquillo, che andava tutto bene, perché quando si è lontani è giusto che sia così. La serenità della famiglia è anche la tua. Sono certo, comunque, di essere stato utile, sono esperienze così forti che arricchiscono lo spirito. Alla Scuola di Cavalleria metto a frutto le mie competenze tecniche, frutto dei tanti sacrifici fatti all’università e nel corso della mia carriera professionale».

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