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Pubblicato il 30/07/2014

RASSEGNA STAMPA : QUELLI CHE ONORANO IL BASCO di Ebe Pierini


ITALIAN NEWS del 30 Luglio 2014
Quelli che onorano il basco amaranto

di Ebe Pierini

Giugno, aeroporto di Pristina. Scendo dal volo che mi ha portata in Kosovo. Mi avvio verso il terminal dove mi attendono i militari che mi condurranno a Pec. Devo raggiungere Villaggio Italia, la base che ospita il Multinational Battle Group West. Lo zainetto mimetico sulle spalle. Quello di tante avventure. Quello con lo scratch con il mio nome cucito a mano da un sarto afghano. Mentre cammino mi si affianca un soldato. Era sul mio stesso volo. “Dottoressa, io e lei è destino che ci incontriamo in tutti i teatri operativi del mondo”. Lo guardo. Sorrido ma non riesco a mettere a fuoco il suo volto. Lui capisce. “Era seduta davanti a me sull’elicottero che da Shindand ci ha riportato ad Herat, a gennaio”. Sorrido. È vero. Ero in Afghanistan a gennaio. Ero su quel volo. Mi stupisce che si sia ricordato del mio volto tra tanti. Ma immagino sia dovuto al fatto che sono una civile, sono una donna. Facendo un po’ di ordine nella mente ripesco l’immagine di tre soldati, con una mitragliatrice appesa al collo, con lo sguardo duro ed impenetrabile che ti attraversa da una parte all’altra, seduti davanti a me su un CH47. Non lo avrei mai riconosciuto se non fosse stato lui ad avvicinarsi. “Scusa, a che reggimento appartieni?”. “185°”.

Ah, ok. Ho capito tutto, non ti chiedo altro”. Ho fatto una domanda cretina. Avrei dovuto capirlo da sola. È un soldato del 185° reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore”. È un parà. È uno di quelli che fanno lavori complicati, difficili, che rischiano la vita. Davvero, non per finta. Ci salutiamo. Un ultimo sorriso. Non gli chiedo dove va. Non gli chiedo di cosa si occupa. So che non potrebbe rispondermi o, se lo facesse, sarebbe una risposta di circostanza. Il loro motto è “Videre nec videri”, vedere senza essere visti. Io prendo la via di Pec e lui si mescola agli altri e non lo vedo più.

È solo l’ultimo delle decine di paracadutisti che ho incrociato nella mia vita di giornalista embedded. Un incontro che mi è tornato alla mente in questi giorni dopo le polemiche scoppiate a seguito di un video che mostra un piccolo gruppo di militari della Folgore che intona un canto di epoca fascista. Quando accadono certe cose il problema reale è che si tende a generalizzare. Non si isola chi sbaglia ma si estende la colpa anche a chi non c’entra. Una goliardata che se non fosse finita in un video sarebbe morta lì, con l’ultima parola di quel canto. Ci sarà un’indagine interna. Qualcuno sarà punito. Ma quel che più è grave è che, per l’errore di pochi, si getta fango su un reggimento, su una brigata, su quello che la Folgore ha rappresentato per la storia del nostro Paese. Prima di partire la prima volta per l’Afghanistan mi sono preparata con i parà, a Valle Ugione, la loro area addestrativa. Vita dura, tenda, umidità, razioni kappa. E poi trattamento prigionieri per sapere affrontare il malaugurato caso di una cattura in teatro operativo. Legata, incappucciata, segregata per ore. Da loro ho imparato ad affrontare con più freddezza le situazioni di rischio, le paure, le difficoltà. Da loro ho imparato come gestire certe eventuali emergenze, come evitare di mettere a rischio la mia vita e quella degli altri. Mi hanno sparato addosso con proiettili pieni di vernice rossa che, all’impatto con il corpo, esplodono e ti danno il senso del danno che ne farebbe uno vero. Ricordo ancora i lividi causati da quei colpi sulla mia pelle e nel contempo ricordo gli insegnamenti di quei parà grazie ai quali ora so come difendermi da un cecchino.

La prima volta che sono partita per l’Afghanistan ho fatto il viaggio con i ragazzi della Folgore. Trascorsi la notte su uno scalino di cemento, quando l’area transiti di Al Bateen era solo una stanza con qualche sedia di plastica bianca. Ricordo il caporale della Folgore che era seduto a fianco a me su quello scalino e che insisteva per cedermi il suo giubotto in goretex per proteggermi dall’umidità della notte. Li ho visti al lavoro tra le strade insidiose e polverose dell’Afghanistan i ragazzi del generale Masiello quando c’era la Folgore alla guida del contingente italiano, nel 2011. Li ho visti sudare, faticare, rischiare ma non li ho mai sentiti lamentarsi. In Afghanistan ho incrociato lo sguardo del comandante della Task Force 45, l’unità che raggruppa le nostre Forze Speciali in teatro operativo, mentre lo intervistavo. Un paracadutista del 9° reggimento Col Moschin. Un soldato coriaceo, determinato. Di quelli dei quali è vietato rivelare il nome e mostrare il volto. Uno di quei soldati che c’è ma non si vede perché opera nel silenzio.

Quel basco amaranto l’ho visto adagiato sul capo di decine di altri paracadutisti, lo scorso ottobre, nella base avanzata La Marmora, a Shindand. Coi ragazzi del 183° reggimento “Nembo” ho condiviso pasti, alloggi, vita. Sono uscita con loro in pattuglia. Li ho seguiti in silenzio, con lo sguardo. Ho rubato il loro impegno, la loro dedizione, il loro attaccamento alla bandiera, il loro senso del dovere e dell’onore e li ho appuntati con una biro sul mio taccuino a quadretti. Li ho accompagnati durante le delivery, le distribuzioni di aiuti umanitari nelle scuole e nei villaggi. Ho ascoltato le lezioni che hanno tenuto in aule piene di piccoli afghani per metterli in guardia dal pericolo delle mine e degli ordigni bellici inesplosi che si trovano lungo le strade e nei campi. A vegliare su ogni mio passo c’erano Luca e Linda, i due paracadutisti che avevano il compito di scortarmi. Ogni mio passo era un loro passo. Gli angeli custodi di chi, come me, ha bisogno di vedere, di provare, di capire. Ci sono tornata a gennaio a Shindand e ho ritrovato i parà del 183° reggimento. Mi sono sentita di nuovo a casa, in famiglia. E nuovamente ho condiviso le mie giornate e le mie esperienze con loro. Lì, in quell’angolo di Afghanistan dove i nostri soldati erano continuamente sotto tiro da parte dei talebani. Dove il lancio di razzi da parte del nemico era continuo, dove gli attacchi con arma da fuoco alle pattuglie erano all’ordine del giorno, dove gli ied erano un incubo costante. Un giorno il colonnello Franco Merlino, comandante del “Nembo”, mentre ci trovavamo sulla Smeraldo, una delle strade che si snodano dalla Highway One, si è inginocchiato e, con un dito, mi ha disegnato nella polvere il tragitto che stavamo compiendo indicandomi tutti i punti nei quali i suoi paracadutisti avevano subito attacchi. E in quel piccolo solco tracciato nella sabbia chiara e soffice ho letto tutte le volte in cui i parà del 183° erano scampati alla morte. “Non è il colore del basco che fa il paracadutista ma sono il modo di comportarsi e la professionalità di un soldato che colorano quel basco di amaranto” mi ha raccontato il comandante Merlino parlandomi dei suoi soldati. “Ripeto sempre loro che chi li guarda deve capire che sono paracadutisti osservandoli al lavoro ed averne la conferma perché, guardando nella tasca della loro mimetica, vede spuntare il color amaranto e il fregio che li contraddistingue”. Ho ascoltato quelle parole e ho sorriso perché nella semplicità di quel concetto c’era racchiuso tutto il senso di una scelta di vita, di un giuramento. Ora, alla luce di tutte le polemiche sollevate dal video dell’inno fascista, ho ripensato a quella frase. Ho ripensato alle centinaia di soldati che non compaiono in quei fotogrammi e che, per la proprietà transitiva, sono stati accomunati a chi ha cantato quelle strofe. Ho ripensato alle centinaia di soldati che ho visto al lavoro in Afghanistan, dei quali ho condiviso piccole frazioni di missione, dei quali ho apprezzato la caparbietà e il coraggio e mi è venuto in mente quel basco amaranto che sbucava dalla tasca della loro mimetica.

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