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Pubblicato il 17/02/2015

RASSEGNA STAMPA: UNGARETTI POETA E SOLDATO DEL 15-18

IL GIORNO
edizione Milano
17.2.15

Cent’anni fa la rivoluzione letteraria dell’Allegria

di CLAUDIA CANGEMI

«SI STA come/ d’autunno / sugli alberi/ le foglie».

Anche chi è digiuno di poesia l’ha sentita almeno una volta nella vita. Magari senza sapere chi l’abbia scritta. È la grandezza di Giuseppe Ungaretti, che trascende il tempo e non perde mai la sua incredibile forza espressiva. Fra pochi mesi saranno 45 anni che ci ha lasciato (morì a Milano, dov’era ricoverato per controlli, la notte tra l’1 e il 2 giugno 1970), ma i suoi versi – come quelli di Petrarca, Pascoli, Leopardi – restano patrimonio dell’Italia e dell’umanità.
Nessuno come Ungaretti ha saputo raccontare la prima guerra mondiale.
Quella che combatté sul fronte italiano – lui che era nato ad Alessandria d’Egitto il 10 febbraio del 1888 – e cantò nelle prime raccolte pubblicate: Il porto sepolto, uscito nel 1916, e Allegria di naufragi, di tre anni successivo (poi riuniti in un unico volume dal titolo L’allegria (1914-1919).
Ungaretti era stato chiamato alle armi all’entrata in guerra dell’Italia e mandato sul Carso come soldato semplice del 19° Reggimento di fanteria. Il primo volume era un vero e proprio diario dalla trincea: ogni lirica recava la data e il luogo in cui era stata scritta. Ecco tra le prime Veglia (Cima Quattro il 23 dicembre 1915): «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita».

Anche a un secolo di distanza, colpisce come un maglio l’originalità rivoluzionaria di un modo di fare poesia quanto più lontano si possa immaginare dall’eleganza manieristica della rima. Il ritmo sincopato e rotto, le parole esplicite fino alla brutalità (massacrato, digrignata, congestione) restituiscono tutta le verità della guerra vissuta sulla pelle, l’angoscia della morte a pochi centimetri, l’amore per la vita, così incongruo eppure prezioso.

QUESTA rivoluzione estetica antelitteram Ungaretti la teorizza: «Il poeta d’oggi ha il senso acuto della natura, è poeta che ha partecipato e che partecipa a rivolgimenti tra i più tremendi della storia. Da molto vicino ha provato e prova l’orrore e la verità della morte. (…) È uso a tale dimestichezza con la morte che senza fine la sua vita gli sembra naufragio».

E ancora: «Ecco come dal poeta è colta oggi la parola, una parola in istato di crisi – ecco come con sé la fa soffrire, come ne prova l’intensità, come nel buio l’alza, ferita di luce. Ecco un primo perché la sua poesia sanguina, è come uno schianto di nervi e delle ossa che apra il volo a fiori di fuoco (…). Ecco perché si muove la sua parola dalla necessità di strappare la maschera al reale, di restituire dignità alla natura, di riconferire alla natura la tragica maestà. Ecco come un poeta d’oggi è uomo del suo tempo».

Quando scrive queste parole, Ungaretti vive a San Paolo del Brasile. È il 1941, sono passati 25 anni da quella prima esperienza in trincea, ma un’altra guerra è scoppiata. «In questo secolo che, per la seconda volta, ha spinto i suoi figli a cadere nell’inferno della guerra affinché conquistino mediante un enorme dolore la misura del loro tempo, è possibile sorprendersi se l’arte ancora è costretta e si tormenta nel rinnovamento dei suoi mezzi espressivi? Indefinito ancora com’è, il secolo XX cerca ancora la sua propria lingua». E allora ecco la poesia, densa e dolorosa come la guerra di trincea, ad affrancare la parola dalla retorica vuota. A svelare la fragilità e l’umanità, nel sangue e nel fango. E nella speranza che non vuole morire.

«Di che reggimento siete / fratelli? // Parola tremante / nella notte // Foglia appena nata // Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità // Fratelli».

LO SPIRITO di fratellanza contro la guerra. E questa incapacità di odiare Ungaretti la rivendica in un discorso pubblico per i suoi ottant’anni: «Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perché ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di rimediare al mio errore, come potevo. E non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffrire, e non odiare mai»

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