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Pubblicato il 06/08/2014

RASSEGNA STAMPA



L’ESPRESSO del 6 AGOSTO 2014

ALLARME SICUREZZA

I TERRORISTI DELLA PORTA ACCANTO

Erano barbieri a Milano o muratori a Bologna. Ora sparano in Siria e in Libia. Ma alcuni tornano. E si teme possano portarci la guerra in casa. Ecco le loro storie
DI PAOLO BIONDANI
FOTO DI ANDREA PAGLARULO

Uno faceva il barbiere a Milano. L’altro lavorava in una cooperativa di pulizie in provincia di Varese. Il terzo sfacchinava come muratore in nero nei cantieri tra Bologna e Padova. Molti si sono spaccati la schiena come braccianti nelle campagne tra Sicilia e Lazio. Qualcuno viveva di espedienti a Torino, Milano o in altre città del Nord, tra spaccio di strada, rifugi-dormitorio, documenti falsi e carcere. Ma i più rispettavano la legge e lavoravano onestamente in negozi, ristoranti e piccole imprese sparse per mezza Italia. Nel gruppo c’è anche uno studente-modello nato e cresciuto a Biella. E non manca qualche cittadino italiano di fede islamica.

Ad accomunare storie personali così diverse sono i punti di partenza e arrivo dei protagonisti: tutti hanno vissuto per anni (o da sempre) in Italia, ma in questi mesi sono partiti per andare a combattere nei fronti di guerra più terrificanti del pianeta. Soprattutto in Siria e in Libia. Dove si sono uniti alle milizie islamiste più sanguinarie. Il fenomeno sta assumendo proporzioni che allarmano le forze di polizia di tutto l’occidente. L’incubo è che tra le migliaia di volontari della nuova jihad internazionale, i più esaltati possano tornare in Europa, magari in Italia. Con un’esperienza di battaglie, eccidi e attentati in grado di trasformarli in micidiali macchine da guerra.


“L’Espresso” ha ricostruito, sulla base delle prime informazioni raccolte dalle nostre forze di polizia, 16 casi di integralisti islamici che, dopo aver vissuto per anni nel nostro Paese, sono andati a combattere in Siria o in Libia. Gran parte di questi “jihadisti d’Italia” hanno scontato diversi anni di carcere duro in Lombardia, Calabria o Sardegna e anche per questo potrebbero nutrire un odio speciale contro le nostre istituzioni. L’allarme a livello continentale è scattato con la strage del 24 maggio 2014 al museo ebraico di Bruxelles, che è costata la vita a quattro innocenti: il primo attacco terroristico in Europa perpetrato da un reduce dalla guerra in Siria. Mehdi Nemmouche, 29 anni, arrestato pochi giorni dopo a Marsiglia, portava ancora con sé il mitra con cui aveva sparato tra la gente in Belgio: un kalashnikov avvolto in un lenzuolo bianco con la scritta dell’Isil, la sigla del famigerato “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”. Cresciuto in Francia, più volte arrestato per furti e rapine, il giovane si era radicalizzato in carcere. Scontata anche l’ultima condanna, nel dicembre 2012 ha raggiunto clandestinamente la Siria, dove ha combattuto per più di un anno con quell’esercito integralista sunnita, che ha ormai conquistato anche il nord dell’Iraq proclamandovi un califfato. Dopo la strage il procuratore federale di Bruxelles ha dichiarato che le indagini antiterrorismo «sono ormai monopolizzate dalla necessità di seguire i rientri dalla Siria di diverse decine di cittadini belgi», mentre «i candidati a partire sono centinaia». Molti degli attentati più cruenti commessi dopo l’11 settembre 2001, come le stragi di Casablanca, Madrid, Londra o Mumbai, sono stati organizzati o eseguiti da terroristi indottrinati in Afghanistan, Pakistan, Yemen e altri fronti del jihad internazionale. Ora il dilagare delle guerre civili e del terrorismo religioso dalla Siria all’Iraq, dalla Libia alla Somalia, sta formando nuove leve di combattenti che rischiano di raggiungere dimensioni incontrollabili. Secondo una stima di Europol, sono «almeno 2300» gli estremisti partiti dall’Europa per fare la jihad in Siria. I Paesi ritenuti più a rischio sono Francia e Germania, ma il nostro è tutt’altro che immune. E sconta anche il problema degli imam predicatori d’odio come quello della moschea di San Donà di Piave espulso dopo le frasi contro gli ebrei: «Allah, uccidili tutti». In Italia nel giugno 2013 ha fatto scalpore la scoperta che un ragazzo genovese, Giuliano Delnevo, è morto a 24 anni combattendo nella zona di Aleppo al fianco dei miliziani di Al Nusra. Convertito all’Islam nel 2008, il giovane italiano predicava su Internet con il nome di Ibrahim ed era partito per la guerra santa in Siria alla fine del 2012. Dopo la strage di Bruxelles, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha chiarito che, secondo le nostre forze di polizia, sono almeno 30 i residenti in Italia (cittadini o stranieri) che sono partiti per la guerra in Siria: otto di loro risultano morti in battaglia, come Giuliano. Le vite dei sedici “jihadisti d’Italia” identificati da “L’Espresso” sembrano un libro di storia contemporanea.


Adel Ben Mabrouk, nato nel 1970 in Tunisia, è emigrato giovanissimo in Italia, dove è vissuto in pace fino al fatidico 2001. Faceva il barbiere, abitava a Milano e frequentava la moschea di viale Jenner. La polizia italiana è rimasta molto sorpresa nel ritrovarlo rinchiuso a Guantanamo dal 2002. Secondo i servizi americani, Adel si era unito al gruppo qaedista tunisino in Afghanistan. Nel novembre 2009, dopo otto anni di prigionia senza processo, l’amministrazione Obama lo ha rimandato in Italia grazie a un accordo con il governo di Berlusconi e Maroni. A Milano, nel frattempo, Adel era rimasto coinvolto in un’inchiesta nata dalle rivelazioni di due pentiti islamici, che ovviamente potevano parlare di lui solo fino al 2001, per cui è stato riarrestato. Al processo anche quelle accuse si sono ridimensionate: Adel è stato condannato solo a due anni. Tornato libero, è stato espulso in Tunisia, dove nel 2011 è iniziata la rivoluzione che ha abbattuto la dittatura di Ben Alì, riportando in libertà tutti gli oppositori detenuti, compresi gli islamisti. Per mesi di lui non si è più saputo nulla. Ora si scopre che l’ex barbiere di Milano ha lasciato Tunisi per andare a combattere con Al Nusra in Siria, dove secondo notizie ufficiose risulta morto in battaglia nell’agosto 2013. Di certo l’assurda prigionia senza difesa né processo a Guantanamo non l’ha curato. Anzi, in casi come il suo potrebbe aver trasformato un pesce piccolissimo in uno squalo. Alla giustizia italiana invece, per motivi opposti di sottovalutazione e impreparazione, potrebbe creare qualche imbarazzo la strada del jihad seguita da Nasri Riad Barhoumi, conosciuto con il nome di battaglia di Abu Dujana: dall’Italia all’Afghanistan; poi da Guantanamo a Milano; e ora dalla Tunisia alla guerra in Libia.


Fino al 1998 Nasri viveva fra Padova e Bologna. All’improvviso ha lasciato casa e lavoro ed è diventato, secondo le indagini di polizia e carabinieri, il capo della cosiddetta «casa dei tunisini» a Jalalabad: il centro di reclutamento dei suoi connazionali attratti dall’Afghanistan di Osama Bin Laden. Catturato dagli americani dopo l’11 settembre, “Nasri l’italiano” è rimasto prigioniero per otto anni prima a Bagram e poi a Guantanamo. Anche lui trasferito e riarrestato in Italia, era stato condannato a sei anni in primo grado, ma poi i giudici d’appello lo hanno clamorosamente assolto. Sentenze così ipergarantiste, commentavano gli investigatori sconfitti, rischiano di avere il paradossale effetto di giustificare le operazioni fuorilegge della Cia. Fatto sta che Abu Dujana, tornato libero in Tunisia, è entrato nell’ala militare di Ansar Al Sharia, la fazione più forte, e ora è segnalato tra i capi di una milizia islamista infiltrata nella guerra civile che sta devastando la Libia. Per misurare la pericolosità della situazione, basta ricordare che Ansar Al Sharia è il gruppo terroristico accusato, tra l’altro, di aver organizzato l’attacco dell’11 settembre 2012 a Bengasi in cui fu ucciso l’ambasciatore americano. Il suo leader è lo sceicco Seifallah Ben Hassine, detto Abu Ayad, già imam a Londra e ora super-ricercato: anche lui è un reduce dall’Afghanistan. Per l’esattezza, aveva preso il posto di “Nasri l’italiano” come reclutatore dei tunisini a Jalalabad. Tutta la cupola di Ansar Al Sharia ha forti legami con l’Italia. Il braccio destro dello sceicco Abu Ayad è un altro tunisino vissuto per anni in Lombardia: Sami Essid Ben Khemais, sulla carta piccolo imprenditore delle pulizie a Gallarate. In realtà era “l’emiro” per l’Italia di una cellula di veri terroristi che progettavano stragi in Europa: la polizia tedesca sequestrò ai suoi complici, da lui ospitati anche a Milano, trenta chili di Tatp, lo stesso esplosivo artigianale che fu usato, tra l’altro, dai dodici kamikaze che nel 2003 provocarono 45 morti a Casablanca. L’emiro Essid da Gallarate è tornato in Tunisia dopo aver scontato otto anni di carcere duro in Italia. In aula con lui, a Milano, fu processato Mohamed Aouadi, un muratore allora ventisettenne, alto e stralunato, soprannominato «pennellone», condannato a quattro anni come l’ultima ruota del carro. Ora è detenuto come superterrorista a Tunisi: secondo l’accusa quell’ex gregario italo-tunisino, addestrato in Libia, è entrato nella “squadra omicidi” di Ansar Al Sharia che nel 2013 ha assassinato, con la stessa arma, i leader della sinistra Balaid Chokri e Mohamed Brahmi. Due delitti eccellenti che hanno rischiato di far precipitare anche la Tunisia nella guerra civile. A Milano, nel 2004, fu arrestato anche Osman Rabei, l’ideologo del gruppo terroristico della strage di Madrid: ospite di ignari parenti italo-egiziani, stava indottrinando un ventenne aspirante kamikaze e gli parlava di colpire Roma, ma la Digos lo ha fermato prima. In Italia l’unico terrorista islamico che si è fatto esplodere davanti una caserma, nel 2009 a Milano, non aveva collegamenti internazionali: si era indottrinato da sé, su Internet. Si chiama Mohamed Game, è nato in Libia 40 anni fa, è rimasto gravemente menonato e sta scontando una condanna definitiva fino al 2023. Tutti gli altri jihadisti finora arrestati in Italia sono stati invece processati per il reato-barriera di «terrorismo internazionale», che colpisce chi recluta militanti per fare attentati anche contro i civili, ma all’estero. Ora però l’avanzata del jihad dal Nord Africa al Medio Oriente crea una doppia minaccia anche per l’occidente: gli scenari di guerra globale rischiano non solo di esaltare i potenziali “terroristi fai-da-te” come il milanese Game, ma anche di favorire il ritorno in Europa dei miliziani organizzati e ormai addestrati a combattere nelle guerre più spietate. Tra i sedici jihadisti d’Italia che ora hanno un nome e un volto, metà sono andati a combattere in Libia, spesso passando dalla Tunisia, gli altri in Siria, dove si sono schierati fino al 2012 con Al Nusra, poi con l’Isil. Le reti di reclutamento però potrebbero essere collegate: almeno tre combattenti, dopo essere usciti dalle carceri italiane, sono stati segnalati prima in Siria e poi in Libia, o viceversa. Per ora nessuno dei jihadisti di casa nostra sembra pensare all’Italia: tutti concentrati nelle guerre all’estero. Il ritorno dei reduci, però, è già una realtà: le nostre forze di polizia hanno cominciato da mesi a schedare riservatamente i primi integralisti che hanno iniziato a rientrare in Italia dai fronti di guerra. Per ora si tratta di casi individuali, che non risultano collegati ad alcuna organizzazione terroristica e che non coinvolgono personaggi già inquisiti né esponenti conosciuti del jihad internazionale. L’ultimo episodio è di pochi giorni fa: alla fine di luglio, fra Trieste e Venezia, è stato pedinato, fermato e interrogato un cittadino italiano di 21 anni, nato e cresciuto a Biella da una regolarissima famiglia di origine marocchina. Non aveva alcun precedente penale, non era conosciuto neppure come integralista e ha un curriculum da studente modello, ben integrato e naturalizzato in Italia dai suoi genitori, emigrati molti anni fa dal Marocco in Piemonte, dove hanno sempre lavorato onestamente. Il classico bravo ragazzo, insomma. Che ha fatto solo una vacanza molto strana: un’estate di guerra in Siria.
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