OPINIONI

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Pubblicato il 02/02/2012

REVISIONISMO DI SINISTRA: ELOGIO DELLA VOLANTE ROSSA


La «Volante Rossa» in versione turistica. Giulio Paggio è il terzo in piedi da sinistra



Il ritorno della Volante Rossa

IL CASO. Modello di «giustizia proletaria» o precursore del terrorismo?

DI ROBERTO BERETTA

«Revisionismi di sinistra» sul gruppo di ex partigiani comunisti che nel 1947-49 uccise tre presunti «fascisti» I colpevoli poi fatti fuggire a Praga: vita dura, ma nessun pentimento «politico»

Esiste anche (forse è un po’ fuoritempo…) un revisionismo «di sinistra»… È il pensiero che viene alla mente ripo­nendo la ricerca in cui Massimo Recchioni punta a «riabilitare» la Volante Rossa: ovvero il manipolo di ex partigiani comunisti che negli anni subito dopo la guerra seminò nel mila­nese sanguinosi episodi di «giustizia proletaria» ante litteram. Non che l’autore non abbia qualche ragione di farlo, se è vero – come si attesta nel suo Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici in Ceco­slovacchia
(DeriveAppro­di, pp. 220, euro 17) sulla base dei documenti pro­cessuali – che la mitizza­ta/ demonizzata formazio­ne si rese responsabile ‘soltanto’ di tre assassinii di presunti fascisti, e non invece di tutto il codazzo di esecuzioni premeditate e delitti ideologici che la vulgata in genere le attri­buisce.

Però nelle testimo­nianze pazientemente rac­colte dall’autore tra gli ex appartenenti alla forma­zione, con lo scopo di chiarire le «motivazioni che avevano causato ven­dette e giustizie partigia­ne » e per smentire che «questi ragazzi andassero in giro ad ammazzare av­versari politici quasi per diletto», non sempre viene rispettata la proclamata imparzialità. L a figura centrale è il «tenente Alvaro», a­lias Giulio Paggio, giovanissimo comandante partigiano che nel 1945 al­la Casa del Popolo di Lam­brate – periferia operaia di Milano – fondò la Volante Rossa, prima come una sorta di dopolavoro turi­stico giovanile, poi con funzioni di banda parami­litare segreta. Il primo o­micidio «antifascista» av­venne nel novembre 1947, gli altri due a gennaio 1949. Di lì a poco Paggio venne aiutato a fuggire all’estero e rimase in Ce­coslovacchia fino alla mor­te, avvenuta nel 2008, an­che se il presidente Pertini aveva concesso a lui e ad altri esuli comunisti la gra­zia fin dal 1978. E proprio confortato da tale graniti­ca coerenza di militante Recchioni traccia del «Te­nente Alvaro» il partecipe ritratto di un uomo che «fece le sue scelte… con e­strema generosità, accet­tando di pagarne le conse­guenze fino in fondo» sen­za essersi (a differenza di altri, anche comunisti) «mai sottratto alle sue re­sponsabilità, al suo desti­no e alla sua espiazione»: un giudizio che peraltro è stato applicato pari pari a molti brigatisti rossi non pentiti… In effetti la parte più interessante del volu­me riguarda la ricostruzio­ne dell’emigrazione politi­ca italiana in Cecoslovac­chia dopo la seconda guerra mondiale, storia che presenta una dignità e persino una drammaticità umana più che rispettabi­li. Ad esempio quando, dopo i primi mesi d’am­bientamento in un ex col­legio di Praga, i «compa­gni » italiani vengono spe­diti al nord a lavorare nelle miniere, nelle acciaierie o nelle colonie agricole e sperimentano sulla pro­pria pelle – senza peraltro mai rinnegare la fede co­munista – le contraddizio­ni del «paradiso sociali­sta »: lavoro durissimo, ca­se collettive, niente soldi, pochi servizi e poco cibo… «Si può dire che noi abbia­mo cominciato a stare de­centemente dopo il 1968», depone una testimone.

Qualche volta il Partito manda aiuti dall’Italia, ma «oggi parlano ancora di noi come esiliati d’oro, non immaginano neanche la vita di sacrifici che ab­biamo dovuto fare»… È qui che la biografia del «Te­nente Alvaro» – il quale all’estero ha dovuto assu­mere il nome di Antonio Boffi – e dei suoi sodali può circondarsi di un’aura di coerenza eroica. Anche quando Paggio torna a Praga e viene assunto a «Oggi in Italia», radio di controinformazione poli­tica diretta al nostro Paese, la sua situa­zione econo­mica e sociale non si fa certo idilliaca, an­che perché nel frattempo ha fatto fami­glia. Funge comunque da compensa­zione la soli­darietà tra gli esuli italiani, fortissima pur nella reciproca igno­ranza delle rispettive vi­cende personali o addirit­tura dei veri nomi – secon­do la segretezza abituale nelle strutture politiche clandestine. Aspetti umani che colpiscono, indubbia­mente; e che – insieme alla sostanziale rimozione compiuta nel frattempo dal Pci sul «sacrificio» di quei fedelissimi, diventato ormai molto scomodo nel gioco democratico – fanno riflettere sull’amaro desti­no di quegli uomini.

C iò che difetta tutta­via è un’analisi stori­ca e politica dell’o­perato di Paggio, con l’am­missione non tanto delle responsabilità della Volan­te Rossa (ammissione che per la verità non manca, anzi viene persino iscritta a merito dai protagonisti stessi) ma che le conse­guenze delle sue azioni al­la fine sono state negative, per tutti: per le vittime e per i colpevoli, ma più in generale per la democrazia in Italia. Così in questo vo­lume tutta la vicenda del­l’emigrazione politica ita­liana in Cecoslovacchia sembra bloccata sulla ri­vendicazione della qualità «antifascista» delle proprie scelte violente: essa da sola basterebbe a giustificarle.

Ma oggi, 60 anni e una sta­gione di terrorismo dopo, questo non può certo ac­contentarci; anzi, esaltarne i protagonisti rischia di sviare altri giovani dietro un mito pericoloso. Resta dunque l’umano rispetto per la coerenza di quei mi­litanti; però è impossibile condividerne l’oggetto. E occorre dirlo più chiaro.

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