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Pubblicato il 21/10/2018

VERSO IL DISARMO ANCHE MORALE DELLE FORZE ARMATE

di Marco Bertolini
per CongedatiFolgore.com e Analisi Difesa

Si sono recentemente verificati un paio eventi in caserme dell’Esercito Italiano che dovrebbero imporre una seria riflessione che non si esaurisca, as usual!, nel rituale impalamento più o meno metaforico del comandante di turno.
Il primo episodio, più remoto, è rappresentato da un’adunata di reggimento durante la quale un comandante ha arringato i propri uomini, prossimi ad un impegno “fuori area”, mettendoli di fronte alla necessità di rinunciare a parte degli “straordinari” maturati.


Il colonnello, costretto dall’impossibilità di remunerare finanziariamente parte del cospicuo lavoro straordinario maturato dalla propria unità per mancanza di fondi, ha sottoposto energicamente al proprio personale la scelta tra l’impiego all’estero – rinunciando agli straordinari maturati – o l’invio in “recupero compensativo”, il sistema alternativo al pagamento, che avrebbe però impedito l’invio in missione.

L’improvvida arringa, evidentemente non apprezzata da qualche sottoposto non disposto a rinunciare né alla botte piena né alla moglie ubriaca, è stata carpita fraudolentemente con un cellulare e pubblicata su un social media, scatenando contro l’incauto Ufficiale l’indignazione generalizzata (anche da una parte dell’opinione pubblica che di norma se ne fotte delle Forze Armate). Come sia andata a finire non è dato sapere, ma certamente l’interessato stava meglio prima.

E’ recentissima, invece, la notizia apparsa sulla stampa di un comandante che avrebbe preteso dai propri uomini la firma di una specie di “consenso informato” se non una vera e propria “dichiarazione di assunzione di responsabilità” circa i rischi che avrebbero dovuto affrontare nel prossimo impegno operativo, con particolare riferimento alla solita storia dell’uranio iImpoverito. Intendeva, evidentemente, tutelarsi nel caso che tra qualche anno venga ritenuto responsabile di qualche malattia contratta da suoi militari nell’assolvimento del compito ricevuto dal Vertice politico-militare.

Anche in questo caso, un sintetico comunicato dello Stato Maggiore annuncia indagini che probabilmente si concluderanno col solito rituale impalamento di qualcuno “che non ha capito”.


A parte i risultati sostanzialmente identici per gli autori dei “misfatti”, si tratta di episodi diversi che però evidenziano lo stesso malessere di natura profondamente “etica” che vede i comandanti da una parte spinti per radicato condizionamento morale, a partire dai tempi dell’Accademia, ad assolvere il compito a tutti i costi, mentre dall’altro fronteggiano difficoltà assurde che sembrano fatte apposta per impedirgli di operare.

In particolare, il primo episodio è assolutamente in linea con l’approccio sbrigativo che molti generali, ora agli Stati Maggiori o in quiescenza come il sottoscritto, avrebbero probabilmente adottato a loro volta da capitani o colonnelli, pur di ottemperare ad ogni costo all’impegno operativo di cui erano stati investiti; il secondo, invece, evidenzia la difficoltà per un comandante italiano di oggi di farsi carico da solo della responsabilità relativa all’impegno del proprio personale al quale, non per assurdo (ripeto, non per assurdo), potrebbe addirittura imporre di farsi uccidere per assolvere ad un compito operativo.



Venendo al primo caso, quello degli straordinari è un istituto adottato molti decenni fa, sull’onda di vari interventi normativi che avevano portato, tra l’altro, all’abolizione dell’uniforme per la libera uscita, all’impianto di veri e propri processi per l’irrogazione dei provvedimenti disciplinari e alla nascita dei Consigli di Rappresentanza.

Questi ultimi sono il virus dal quale, a sentire le più recenti notizie, starebbero per disseminarsi le metastasi della sindacalizzazione delle Forze Armate, fino ad oggi e non a caso ancora parzialmente efficienti e sostanzialmente disciplinate.

Con tale istituto vennero, è vero, impediti molti “abusi” da parte di alcuni comandanti del passato che non si peritavano di chiamare “rapporto ufficiali” alle nove del sabato sera ma, di fatto, si vincolò la possibilità di effettuare addestramento al solo “orario di servizio”, riducendo all’osso le esercitazioni continuative ai minori livelli e quelle notturne, vale a dire nell’ambiente più consono alle attività tattiche.


In ogni caso il provvedimento ha però anche avuto il merito di rendere meno penalizzante lo “spread” negativo tra gli emolumenti corrisposti nelle Forze Armate alleate e quelli italiani. Una soluzione da sempre auspicata per salvare capre e cavoli consisterebbe nel corrispondere un’indennità supplementare riferita alla specificità militare che renda non necessario lo straordinario, se non fosse che non c’è governo di centro-destra, centro-sinistra o destra-sinistra come l’attuale che abbia dato segno di voler riconoscere tale impegnativa specificità.

Ma è soprattutto il secondo e più recente episodio che merita una seria riflessione. In una sorta di apertura al mondo analoga a quella che sta portando la Chiesa Cattolica a protestantizzarsi, le Forze Armate hanno rinunciato ad avvalersi delle deroghe alle quali avrebbero avuto titolo nell’applicazione delle norme sulla sicurezza del personale, appiattendosi acriticamente sulla realtà civile.


Infatti, anche in operazioni il comandante viene investito del ridicolo, e drammatico al tempo stesso, ruolo di “datore di lavoro” per i propri dipendenti, spesso senza disporre delle risorse umane previste neppure per l’ordinaria situazione nazionale di riferimento. In quanto tale, deve tutelarne l’incolumità e la salute in un ambiente ostile ed a fronte di attività che sono, a prescindere, pericolose.

Ai comandanti in missione, in sostanza, viene chiesto di addossarsi responsabilità che non possono affrontare e che dovrebbero rimanere attestate a livello centrale, negli efficienti Stati Maggiori e comandi operativi.

Non è infatti possibile, per chi si trovi coinvolto nelle mille incombenze dell’impiego sul campo, scansare il rischio che un suo militare si trovi prima o poi immerso in ambienti insalubri, o che durante una pattuglia debba guadare un corso d’acqua in piena, affrontare itinerari rischiosi o che, durante un’azione ostile, debba arrampicarsi pericolosamente di notte su un’altana o su un albero senza essere stato preventivamente abilitato al “lavoro in quota” da un apposito corso presso qualche ditta specializzata civile.



Soprattutto, nessun comandante in operazioni dovrà mai essere distolto dall’attenta valutazione dell’iniziativa della controparte, che sfrutterà sempre la sorpresa e la propria intelligenza per infliggere perdite al nostro contingente. Questo, infatti, è il rischio maggiore per il quale i comandanti devono esercitare la loro preparazione e la loro non indifferente professionalità.

Questa situazione, che sarebbe ridicola se non incidesse drammaticamente sulla nostra credibilità in campo internazionale e se non mettesse veramente a rischio le capacità di concentrarsi sulle sfide poste dall’impiego operativo, è quella che ha probabilmente portato il comandante all’estemporanea soluzione in questione, nell’illusione di potersi smarcare da problemi che in zona di operazioni non potrà affrontare a meno di trascurare il suo vero compito. Brutta mossa, comunque! Ma comprensibile.

Insomma, i due episodi evidenziano che, a quanto pare, stanno venendo al pettine nodi di vecchia data, trascurati per generazioni nell’illusione che le Forze Armate avessero gli anticorpi per non appiattirsi su una realtà nazionale sempre più ingessata e incapace di risolvere i problemi, a partire dai più vitali come la ricostruzione delle aree terremotate proprio per “rispetto delle norme”.

Così, militari puniti dal proprio Comandante perché in disordine con l’uniforme hanno buon gioco a farlo sbugiardare con una semplice “telefonata alla mamma” (il numero telefonico a disposizione per denunciare gli abusi, anche anonimamente), mentre altri soldati spaventati dal piglio ingenuamente autoritario del tenente di turno riescono a provocarne l’umiliazione di fronte al reparto, senza che nessuno possa osare una resistenza.

Forse non è troppo tardi, ma è il caso di ribadire solennemente e fermamente a tutti i livelli istituzionali che l’organizzazione militare è gerarchica e quindi autoritaria per natura e per necessità, che si differenzia dalle organizzazioni civili per l’esigenza di accettare rischi elevati in operazioni ed in addestramento e che ha bisogno, per operare e anche solo per esistere, di risorse adeguate, che evitino ai comandanti sistemi di governo “creativi” che l’ipocrita società attuale non vuol più vedere.

Bene ha fatto, quindi, ad andare giù duro il generale Salvatore Farina, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, nel sollevare durante una recente audizione presso le commissioni difesa parlamentari i problemi della sua Forza Armata, scalata paradossalmente da riferimento principale del mondo militare a “cenerentola” con le stellette, con mezzi obsoleti, soldati sempre più vecchi (e a breve sindacalizzati, aggiunta mia) e organici insufficienti ai compiti da assolvere.


Per quanto riguarda l’attenzione che tale grido di dolore riceverà dalla classe politica, una cosa è certa: appellarsi al valore della sovranità nazionale lasciando che il principale presidio della stessa, le Forze Armate (e soprattutto l’Esercito di cui con un po’ di faccia tosta commemoreremo il centesimo anniversario della Vittoria che ci consegnò l’Italia unita ed indipendente) vengano di fatto smilitarizzate da provvedimenti di legge che ne sovvertono l’impianto etico è una contraddizione insanabile, della quale tutti devono essere consapevoli.

E non è un problema per i soli addetti ai lavori, in quanto rappresentano un patrimonio di tutto il nostro popolo e non il balocco o il bancomat per la classe politica di volta in volta al governo o di quella militare per ragioni di anagrafe in comando.


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