SANGUE ED ONORE AD EL ALAMEIN
16 Jan 2002
Autore: par.Folgorino LEO ZANINI ZINATO a cura della Redazione Congedati Folgore

PREFAZIONE.


Nel Giugno del 1942, alla scuola Paracadutisti di Tarquinia, la divisione "Folgore" completò i suoi Quadri ed in attesa di impiego militare , si trasferì in Puglia.
L'isola di Malta era allo stremo delle sue forze a causa dei costanti bombardamenti dell'Aviazione dell'Asse, pur tuttavia l'Inghilterra era riuscita forzare il blocco e farle giungere notevoli convogli di aiuto.
In Africa, Rommel, nell'euforia dell'avanzata, insisteva di avere nuove truppe fresche, mezzi, carri e carburante per proseguire con più slancio verso Alessandria.
Riteneva pertanto, inutile disperdere energie per occupare Malta con un lancio di paracadutisti, quando l'isola avrebbe automaticamente perduto il suo valore strategico con l'entrata vittoriosa in Egitto.
La tesi di Rommel prevalse e il piano "Ercole" su Malta fu accantonato. La Divisione Folgore, con un lento e lungo viaggio in treno, risalì la costa adriatica, attraversò la Jugoslavia, entrò in Grecia e si attendò in Atene.
Poco dopo i reparti partirono dall'aeroporto di Tatoi avio-trsportati col solo armamento leggero e persino con la borraccia vuota per alleggerire il carico, alla volta di Tobruk, senza scorta di caccia.
I Veterani del Deserto, impazienti attendevano la Folgore per entrare in Alessandria, forzando le ultime e più forti resistenze, ma alla Divisione fu comandato di arrestarsi su di una linea di difesa verso l'interno con la sola guardinga liberta di scontrarsi con il nemico in attività  di pattuglia per rubargli, fra le molte cose, qualche camionetta per aver così un proprio mezzo di rapido collegamento fra i reparti.
Col passare dei giorni, sfumò qualsiasi illusione di lancio sulle varie località  strategiche del Medio Oriente e i paracaduti furono ritirati e portati al deposito di Derna per finire logorati dall'incuria.
I Reparti dell'Africa Corps si erano spinti molto avanti nell'avanzata e vi erano giunti esausti, coi servizi logistici lontani dalle basi e dai porti continuamente bersagliati dall'aviazione della R. A. F.
Gli inglesi, superato il primo momento di confusione, sbandamento e paura nella rapida ritirata, si erano attestati ora su di una più munita linea di difesa prontamente servita dalle vicine retrovie e ben protetta da aviazione e artiglieria.
Ambedue gli eserciti sfiniti si attestarono da El Alamein sulla costa, alla Depressione Qattara nell'interno, in attesa: l'uno di riprendere quanto prima l'avanzata e l'altro di saperla abilmente contenere per riprendere poi l'iniziativa di una violenta controffensiva a breve distanza di tempo.
La zona della Depressione, la località  più infame del deserto, non per nulla chiamata la "Casa del Diavolo" fu affidata alla Folgore la quale stabilì il suo bel soggiorno di guerra in mezzo ai campi minati chiamati i "giardini del Diavolo".
Rommel aveva fretta di concludere, sia perchè la guerra di posizione non rientrava nel suo stile, sia perchè il tempo giocava a favore del nemico per l'intenso arrivo di forti aiuti americani a Suez, sia perchè Malta ossigenata di viveri, armi e carburante, aveva rinnovato con più abilità  il suo attacco ai convogli dell'Asse dei quali era poi informatissima sia della partenza dei porti italiani sia della rotta.
Rommel con le esigue scorte di carburante, appena sufficiente per pochi giorni di manovra e con le molte promesse e assicurazioni di nuovi arrivi di navi cisterna, disgraziatamente affondate durante il percorso, osò l'impresa alla fine di Agosto per penetrare nei campi minati, cogliere di sorpresa le unità  nemiche, accerchiarle e aprirsi la strada verso la vicina Alessandria.
Purtroppo i campi minati riservarono delle grosse sorprese e dove non si credeva si trovarono invece mine in quantità , per cui venne a mancare la rapidità  e silenziosità  dei movimenti, la puntualità  nelle direttive di marcia e di conseguenza la sorpresa e la forza d'urto.
La battaglia d'Agosto chiamata dagli alti Comandi di: Alam el Halfa, fu dura e cruenta. Mezzi e carburante vennero ben presto a mancare nel gran carosello dei mezzi corazzati.
Malgrado la violenta controffensiva inglese, L'Africa Korps si attestò sulle nuove posizioni occupate e la salda difesa della Folgore sulle quote Deir Alinda e Munassib spense l'orgoglio inglese e la loro arroganza.
Malgrado tanto valore cadde il bel sogno di tutti: riposare sotto un palmeto egizio. Anche al bel cavallo bianco del Duce, fatto arrivare per l'entrata solenne in Alessandria e rimasto a Derna, crebbe in fronte una stella nera in segno di lutto per la mancata vittoria.
Rommel, visto il peggioramento della sua salute, fu costretto prendere in considerazione l'insistente consiglio medico per un periodo di riposo e cura in Germania a Semmering.
Prima di lanciare forzatamente il Comando al generale dei mezzi corazzati Stumme, dette precise disposizioni perchè la linea del fronte venisse particolarmente fortificata.
Anche Montgomery (Monty) in attesa di una forte controffensiva rinnovò, giorno per giorno, con puntualità , pignoleria, testardaggine e grande severità  i cosiddetti suoi "servizi", ossia dette sviluppo al suo programma di risanamento.
In primo luogo rinnovò i Quadri di Comando; sviluppò un severo addestramento in tutti i reparti costantemente ispezionati; convogliò armi, viveri, munizioni, mezzi e carburante in gran quantità  sia al fronte che nelle retrovie, mimetizzandole all'osservazione aerea; intossicò i servizi di informazione su notizie false sulla stessa onda; rinsaldò il morale delle truppe smitizzando l'invincibilità  di Rommel e creando fervore di patriottismo e odio contro il Fascismo. Sguinzagliò ovunque la R.A.F. per martellare porti e basi costiere, i centri di raccolta e rifornimento e le piste, mentre le attività  di artiglieria e di pattuglia mantenevano sul chi va là  tutto il fronte dell'Africa Korps deprimendone il morale.
Come Monty realizzava ogni "servizio" prontamente informava l'alto Comando del Primo Ministro con una parola in codice: "ZIP". Voce onomatopeica derivata dal caratteristico rumore della chiusura con la cerniera lampo.

Il racconto poetico: LA CASA DEL DIAVOLO prende l'avvio proprio da questa pausa di apparente quiete del Fronte dopo la battaglia di Alam el Halfa.
Ero stato comandato ad un posto di osservazione vicinissimo alla linea nemica col solo compito di stare appiattito durante il giorno e molto accorto durante la notte, pronto a segnalare ogni movimento.
Come ingannare la tremenda solitudine del giorno? Avevo con me una edizione tascabile della Divina Commedia e dopo la lettura e le immancabili riflessioni, strappavo la pagina sottilissima, l'arrotolavo con qualche sfilaccio, la fumavo e con pari soddisfazione bruciavo con la brace le uova dei pidocchi che si annidavano nelle cuciture dei pantaloni.
Isolato, povero di acqua e viveri e per di piùmalandato per la dissenteria, ogni mattino vedevo la sveglia dei soldati inglesi e restavo meravigliato ed alquanto rabbioso dei loro agi di vita al fronte.
Ai miei lettori sembrerà  strano come io abbia scelto come interlocutore proprio il diavolo quando al giorno d'oggi per razionalismo, indifferenza e respiro di progresso, nessuno più crede in lui, divenuto ormai pezzo d'antiquariato. Eppure io lo vedevo presente quale giocoliere dei nostri sentimenti, istigatore delle nostre passioni, fomentatore di invidia e odio.
Se nelle nostre vicende umane ci appelliamo volentieri al Caso, al Fato, al Destino, alla Provvidenza, perchè non posso dare io abito e nome al mestatore delle nostre azioni e vedere come egli si burli di noi, dei nostri valori ed in ogni circostanza di vita ci metta, come si suol dire, la coda?
L'idea mi è venuta contemplando nelle splendide notti del deserto la bellezza del cielo stellato e nello stesso tempo vivendo la brutalità  dell'uomo in guerra proprio in quella zona del fronte chiamata la "Casa del Diavolo".
Egli soddisfatto di aver rovinato il primo Adamo e quindi rotta l'armonia della creazione portando dolore e morte, ora si rivolta contro il secondo Adamo, quello nuovo redento dal Cristo, sconvolgendo in odio tutto l'amore, poichè teme che la pietà  del giusto possa sconfiggere la prepotenza del forte.
Asserragliato dalle sue tentazioni, egli mi trasporta in vetta di una delle piramidi del Cairo, per mostrarmi non tanto i suoi regni, quanto lo strapotere delle forze nemiche.
Mi trasporta pure all'oasi di Siwa per sentire dalla voce dell'oracolo la verità  sulla condotta di guerra.
Mi introduce pure nel carrozzone di Rommel per udire il lamento di Sigfrido, l'ira di Rommel per la sconfitta.
Mi mostra nella roulotte di Monty i piani di preparazione per la grande offensiva della sicurezza della vittoria.

Ed infine nello svolgimento ultimo della battaglia dal 23 ottobre al 6 novembre mi porta nei diversi settori, perchè ne veda la strage, la sconfitta, l'inutile valore, la morte.

La battaglia è l'ora del suo spettacolo, della sua vendetta e vorrebbe far sue tutte le anime generose dei combattenti, ma interviene la Vergine Maria a tutelare il dolore di redenzione e la madre Italia a ricomporre il rotto piastrino, perchè i corpi degli sventurati suoi figli non restino ignoti.
Interviene pure l'arcangelo Michele il quale con la spada traccia sui cumuli coperti dall'ira del ghibli, una croce perchè l'anima respiri l'immortalità  e la grazia di Dio scenda con la rugiada della notte.

I soldati, usciti dalla tribolazione, dallo stagno bollente della guerra, sono purificati ed ora godono della visione di Dio nella pace del loro Sacrario a Quota 33.

E della Folgore che ne è stato? Lasciamo al verso l'estrosità  di narrare le ultime diavolerie per oscurare di essa l'eroica epopea.


L'autore
Leo Zanini Zinato

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Folg. Leo Zanini Zinato
P.O.W. n° 364756
Campo 305 (Egitto)









"LA CASA DEL DIAVOLO"
La depressione di Qattara nel deserto egiziano


POEMETTO IN SEI CANTI




L'EPOPEA ITALIANA E FOLGORINA SULLA LINEA DEL FRONTE

DAL MARE ALLA DEPRESSIONE

DA EL ALAMEIN A HEIMEMAT





Da Lunedì ore 20:45 del 23 Ottobre 1942
A Venerdì ore 14:35 del 6 Novembre 1942


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CANTO I°

FOLGORE

I. Or quel ch'io voglio raccontar in verso
è triste quadro di realtà  nascosta,
non fantasie senili a tempo perso
or che rugosa s'è fatta la crosta
e vedo il ciel grande, sereno e terso.
Non dirò della guerra amata o imposta,
ma della beffa fatta ai Folgorini
eredi di immortal patri destini.


II. Seguiva il carro di guerra ruggente
il fatal corso della dea Fortuna
e ruota di follia pazza e demente
seccava l'oasi, bruciava la duna.
Per sol deserto, per sol sabbia ardente,
o quante vite spente ad una ad una.
Solo la luna pallida ed esangue
aveva orrore dell'umano sangue.

III. Era per noi già  il terzo italico anno
di nostra ululata guerra imperiale
che, per cumuli d'ombre, pene e affanno,
non aveva più voce e grido trionfale.
Ma ovunque i prodi, zitti, a morir vanno
con lama e bombe e pane senza sale.
Oh fedeltà , dei semplici parà 
Sempre tenaci senza "perchè" e "ma"!

IV. La giovin Folgore, legio romana,
lasciati i trulli aculei e la tendopoli, (Puglia)
bevette nettare e ambrosia spartana
con gli dei sul la rocca dell'Acropoli. (Atene)
E poi, raggiunta la sponda egiziana,
fe' sue le Depressioni qual Termopoli
e ritta, su robuste ali ampie e tese,
serrò in quadrato contro il rostro inglese.

V. Come il bel Leonida con lancia e spada
e i suoi "trecento" tutti chiusi a scudo,
mostrò all'innumerevole masnada
dei persiani sol volto e petto ignudo,
e contrastò la piana, il passo e strada
temprando il lor sangue il ferro crudo,
si che il viandante ancor si ferma e pensa,
con stupor mira e compie riverenza.

VI. Così la Folgore su quel deserto:
conscia che volontà  ferma non sbaglia
quando si sposa col pensiero certo,
il pugnal leva contro la mitraglia;
di scatto ritta nel bel viso aperto
il tappo lancia contro la ferraglia
e il carro in gran fiammata s'arroventa
e la Folgore sue ali tempra e argenta.

VII. Il temerario Rommel svelto avanza,
mentre l'inglese si sottrae all'irruenza
con tema e abilità  di circostanza,
oppur s'impegna con tanta prudenza.
Rapido Rommel giostra con baldanza *1
spingendo i carri con arte e potenza,
ma ivi il reziario con la rete a trine
blocca il mirmillo svevo sulle mine.

VIII. Purtroppo è l'ora della mattanza: *2
e su automezzi e su carri furenti,
su fanteria che timorosa avanza
piovon granate e bombe dirompenti
tutte precise nella chiusa stanza
fra acute grida e gran strazio d'accenti.
Senza benzina e anche propizi venti
a noi mancaron bende e sacramenti.

IX. In quella mischia dura circostanza
dette gran prova la Folgore forte
con vari attacchi e difesa ad oltranza
vedendo alla scoperto vita e morte
contro i Maori corsi in abbondanza *3
con rabbiose armi secche, lunghe e corte.
Su Alinda e Munassib sangue zampilla, (vedi cartina)
ma l'ala folgorino al sole brilla.

X. Venuta men, purtroppo, la sorpresa;
mancati in lotta anche i rifornimenta,
l'Africa Corps si trincerò in difesa,
e l'anglo s'adirò dei movimenti,
ma non osò spinger oltre l'offesa.
La mina separò i due contendenti
e ritornò ognun senza alcun successo
tutto snervato nel focoso gesso.



*1 gladiatore romano con rete e tridente
opposto all'altro con gladio e scudo.
*2 battaglia di Alam el Halfa.
*3 neozelandesi

XI. Con sua vittoria di parte e sconfitta
si ritirò poi ognuno e cauto stette
con piùattento orecchio a manca e a dritta
ove l'insidie buie son maledette
si che improvvisa vedi l'ombra ritta,
tua nemica, tagliar la tua carne a fette.
Come la serpe sguscia fra le spine,
così l'ardito arpeggia sulle mine.

XII. In quella quiete, fui allor comandato
di fuori uscir dal nostro caposaldo
e presto giunger, senza tirar fiato,
senza timor, con far certo e spavaldo,
un posto fisso già  molto avanzato.
Lì rimaner col piè e l'ottico saldo,
senza mostrar ne pelo, ne unghia o dito
per non farmi scoprir in quel bel sito.

XIII. Povero me, mandato a conquistare
con armi, canti e leggi un mondo intero
ad ora messo li nudo a osservare
una vicina realtà  nel mistero.
Devo vedere e sol telefonare
e del dovere mio sentirmi fiero:
qual camaleonte al sol con pelli rotte,
qual barbagianni nel buio della notte.

XIV. O dolce cara mia solitudine,
quando da amica vieni col Signore
e parli e senti la plenitudine
gioiosa scender nel timido cuore,
si che pieno di ogni beatitudine
rendi verace il sogno di quelle ore.
In quella pace amore abbraccio forte
tanto di giovinezza quanto morte.

XV. Ma qui ove il ghibli infocato spira,
sferza la pietra, turbina la sabbia;
qui ove il deserto è giardino d'ira
e tante bocche sputan fuoco e rabbia
e ogni fucile vendetta sospira
serrando otturator e cuor in gabbia,
questa mia solitudine come ascia
mi cade addosso e paura mi lascia.

XVI. Questo non è loco del bel far niente,
di ninfe e fate e amori nei boschetti
fra stupiti occhi di daini a sorgente,
di fior, farfalle, d'usignol e insetti
nel bel verde canoro fresco e ardente,
di dolci olivi nei diversi aspetti
per tenui vivi color ingemmati
ai bei sorrisi da natura amati.

XVII. Qui la desolazione nuda giace
in un impasto di sabbia furente,
fra ardite pietre bollenti in fornace
con cespi e sterpi di radici spente.
Solo alle mosche questo loco piace
per merda e muco e sangue della gente.
Invano i miei occhi nel forte bruciore
cercan un filo d'erba, un vago fiore.

XVIII. Ecco nel primo mattino il saluto
alle mie membra tutte indolenzite,
ubriache d'umido freddo bevuto
in buca, ferme rimaste stecchite
col fiato mozzo e secco labbro muto
e le iridi girate intorno a vite.
Una violenta salve "d'ottantotto" *4
mi piega, m'alza, mi caccia più sotto.

XIX. Sento vicino scoppiare le mine
e per risposta di corta misura,
ecco la nostra artiglieria piùfine:
un colpo sol ribatte con cura
giusto a spezzar, su linea di confine,
l'ombelicale fil che m'assicura *5
la breve via seguendo quel cavetto,
quando, a sera, acqua e rancio caldo aspetto.

XX. Lasciate il velo di brume sul letto
delle bionde acque del Nilo divino,
di luce sfolgorante in rosso petto
il sole s'alza sul biancor marino
e fuga l'ombre che fanno dispetto
a chi traguarda pronto col cecchino
sui capisaldi chiusi in lontan quote,
su Depressioni a creste rosse e vuote.

XXI. Da un arido cespuglio, come grata,
or solo guardo il settore di fronte:
or questa, or quella buca corazzata,
la prima con seconda unite a ponte
e la fanteria inglese appena alzata
lavarsi tutta come sotto fonte;
farsi la barba, pelo e contropelo
con occhi or bassi, ora levati in cielo.


*4 micidiale pezzo di
artiglieria inglese.
*5 cavo telefonico
XXII. Eccome là  uno di pelo rossiccio,
largo di spalle e fianchi e petto irsuto,
lentigginoso, rubicondo e ciccio,
che nelle man affoga lo starnuto,
e il naso netta con due dita a riccio
e poi stropiccia come can da fiuto.
Infin con urla acute di foresta
le nude braccia leva a pugno in testa.

XXIII. Ne vedo un altro smilzo e magrolino
aggiustarsi i capelli e il maglione;
stringer la cinghia del pantaloncino
e su un sacchetto seder in arcione
sorseggiando buon the dal pentolino.
Qual vero fante della vecchia Albione,
batter la pipa su gomma del tacco,
lieto di sogni e sonno nel bivacco.

XXIV. E un altro porre le sue armi con cura,
riordinar zaino, padella e bottino;
sbatter coperte, due di lana pura,
per adattarle poi come cuscino
delle giberne, dell'elmo e cintura.
Poi, scimmiottando l'amico vicino,
schiumarsi il volto con smorfie allo specchio
e radersi tirando naso e orecchio.

XXV. Un altro un botton al cappotto appuntava,
lo cuciva e lustrava in tutta fretta
e contento di se canterellava
avvolto in nuvole di sigaretta.
Uno discosto, ritto come retta,
attor pareva, cantava, pregava,
tenendo un libro ora aperto ora chiuso
fra due dita, scucito, per troppo uso.

XXVI. Per ultimo sostai più compiacente
sulla centrifuga corsa dal campo
di uno a fuoco nella teatral lente
per certe urgenze che non trovan scampo.
Anche lui, a retro, aveva il propellente
che lo saettava fuori come lampo.
Non è sol nostra la dissenteria
per buoni cibi e molta pulizia!

XXVII. Era comune a tutti nel deserto
spartirsela con mosche e piùpidocchi.
Rugato il volto per quel mal sofferto:
sabbia in budella e brucior negli occhi
e magrezza delle ossa allo scoperto.
Anche chi aveva greche, nastri e fiocchi,
grosse patacche e lunghe tagliatelle,
i pidocchi contavan a fior di pelle.

XXVIII. Presi codesti pensier per contorno,
in buca mi raccolsi tutto stretto,
e come in teglia il pollo messo al forno
per mantenerlo roseo nel suo aspetto,
carta stagnola gli si mette intorno:
così io mi avvolsi in quel sabbioso letto
nello screziato telo assai mimetico,
coi miei pidocchi pronti nel solletico.

XXIX. E come il bimbo all'ombra della sera,
stanco di salti, muretti e balocchi,
pian piano sillaba la sua preghiera
ed ormai tremola, chiude i begli occhi,
si che la madre, del figlio suo altera,
con dolce mano distende i rimbocchi
e curva, bacia con gran tenerezza
e chiude in cor la di lui giovinezza:

XXX. Così io, sfinito nel gioco di guerra,
guardando le intenzion oscure di lotta,
mi raggomitolo nel telo a terra
col sol amico che mi dà  la cotta.
Il caldo bacio suo, tutto mi sterra
e sulle nude e scure membra scotta.
Mal mi rigiro a stretto fianco e spalla
E chiudo braccia e testa e gambe a palla.

XXXI. E balbettai la mia breve preghiera:
un grazie a Dio Signore per la mia vita
e per la buona sorte giornaliera
ancor da bombe alte e basse sfuggita
e a nemiche pattuglie della sera.
Ti sia Signore al cospetto gradita
l'anima bella in sangue e dolor pura
e la straniera che morte non cura.

XXXII. Quante cose la fame fa sognare
a chiuse palpebre, sia ad occhio aperto,
si che facili son le imprese rare
per un minchione al par mio si inesperto;
pur mi consiglia in quel campo d'andare
passando il fil del varco appena aperto;
anche d'uccidere con corta lama
pur di saziar la fame e sete brama.

XXXIII. Della gran tentazione mi sovvenne
il ricordo di Cristo nel deserto,
quando a Lui pure la gran fame venne
nel tormento del corpo a ciel aperto.
Lo spirto, suo voler alto sostenne
E una risposta dette a tono certo:
Quanto più l'uomo a di Dio premura
Tanto più avrà  pane oltre misura!

XXXIV. Ed il diavol a me: -Che pensi omino?
Guarda dinanzi a te, là  a pochi passi:
soldati in armi, a mensa con pan, vino,
e cioccolato e latte e tanti grassi,
tabacco, whisky, birra e biscottino.
E tu, a contar pidocchi, mosche e sassi.
Povero fante in quel stato meschino,
anche se hai il valore folgorino!

XXXV. La buca lascia e passa in altro campo.
Il tuo nemico sa essere cortese.
Ti darà  cibo, bagno caldo e shampoo.
Saprà  dimenticare le tue offese.
Vestirti a nuovo e darti un altro stampo
con belle idee sane del tuo paese.
Le mie parole son lucifer, sante.
Tu, non esser cretino e titubante !

XXXVI. Vattene via! Satana maledetto!
-ribattei forte- con furente volto.
Conosco sortilegio del tuo detto
da mutar saggio desiderio in stolto.
Ai tuoi luridi piè neppure getto,
ma solo mostrerò al tuo bel volto,
i miei pidocchi che son tanti tanti
quanto i voleri miei e di tutti i fanti.

XXXVII. E lui col rosso fuoco di un cratere:
-Mio fante, quanto sei rimbecillito
nel sentimento del Sacro Dovere!
Davvero fantacin rincoglionito,
se non hai libertà  del tuo parere!
Orsù, rinnovo piùcaldo il mio invito:
sia la tua scelta sol per il piacere.
Se qui non godi vita in piena ebrezza,
che giova ancor cantare "Giovinezza" ?

XXXVIII. Che fai tu qui? Fermo inutil custode
di questa terra mia profanatore?
La Depressione è mia Casa di Mode
ed io solo ne son vero signore.
Tua buona o ingiusta guerra è per me frode
e a nulla servirà  vostro valore,
perchè son io il burattinaio, il mazziere
che gira e mescola tutti a piacere.
XXXIX. Son io che strategia imbroglio e le carte,
e grandi uomini giostro e, burattini,
fo' recitar loro quella mia parte
che richiedo secondo certi fini
per sentimenti a mia regola d'arte
a maggior onta dei voler divini.
Su Malta son io che non vi ho lanciati,
ma nel deserto folgorin beffati.

XL. Al gran stratega Rommel corazzato,
feci veder lancio non necessario
su Malta già  tutto un campo minato,
quanto ricever materiale vario:
cannon, benzina, camion, carro armato
e fante svelto, ardito e legionario.
Così la Folgore con gran sorpresa
buche scavò e lì restò in vana attesa.

XLI Così tu ingenuo, in aereo sei venuto
da Tatoi a questa Depressione infame, *6
ridotto all'osso qual limon spremuto:
borraccia vuota e in zaino tanta fame,
senza motor necessario e dovuto,
ma sol con mitra, fucil, bombe e lame.
Chiamala beffa o amara presa in giro,
questa esperienza ti tolse il respiro.

*6 Aeroporto greco

XLII. Accidenti a te, Satana, il Maligno!
O mio buon Dio ti prego forte forte,
lontano caccia questo volto arcigno,
non mi lasciar in balia di sua sorte.
Il tuo germoglio proteggi, il vitigno
che ti sei coltivato con tua morte.
Davanti a me prepari una mensa,
del mio dover sei tu la ricompensa.

XLIII. Perchè vaneggi coi salmi d'Isaia?
Qui si bestemmia e mai e poi mai si prega!
Le Depressioni sono casa mia,
Dio si rifiuta e sempre lo si nega!
Solo, lassù in pace è ben che stia
con chi lo vuol, con chi tutto lo spiega.
Qui fra i mortal il dominio su terra
è tutto mio con odio, morte e guerra.

XLIV. Questo deserto pentecoste vanta
di fuoco e sangue di cenacolo fausto,
ove mitraglia, a vita morte canta
e lascia al ghibli il fiato esausto.
Hel Himeimat sarà  l'ara mia santa (vedi cartina)
ove la Folgore avrà  l'olocausto.
Svelto, di là  quel varco passa in fretta
prima che giunga l'inglese vendetta.

XLV. Tu maledetto che rubi mia pace,
-gli risposi- con cuor stretto e amaro;
perchè tormento getti e avversa face
nel ben a noi sacrosanto e piùcaro?
Nostro dovere e dignità  a noi piace
come veder acceso l'ital faro.
Folgore attende qui, in questo deserto,
se pur impari, leal confronto aperto!

XLVI. Vattene maledetto satanaccio,
ed all'inglese, tuo amico, riporta
il mio, il nostro di Folgore dispaccio:
Venite voi pur con carri di scorta,
vi fermeremo con bottiglie al laccio
e fin che cuor e bandiera ci esorta,
mai leccheremo piedi e catenaccio!
Se ragion vostra è sempre del forte,
combatteremo fino a nostra morte.

XLVII. Mi pareva d'averlo già  sconfitto
con due parole forti e veritiere,
quando girò se stesso tutto ritto
su coda a cerchio come giocoliere,
mutando il rosso color in ner fitto,
l'ocra oscurando di quel tavoliere.
Con infernal risatina beffarda,
mi fece sgarbo, gridandomi: Guarda!

XLVIII. Semplicemente sei un grande testardo!
Ignorata sarà  la vostra gloria.
Tutto miraggio, non avrai traguardo,
solo sconfitta e giammai vittoria!
Solo i caparbi son sempre in ritardo
nel veloce cammino della storia.
Canta che ben t'incanta il "Vinceremo",
presto t'accorgerai quanto sei scemo!

XLIX. E io con sguardo contro di lui irato:
-su di me t'accanisci, perchè tanto?
Se già  conosci il deludente stato
mio, di miser guerrier e manco santo?
Tranquillo lasciami nel mio operato.
O c'è qualcuno che mi vuole accanto
essere per mostrarmi il vero bene
o trascinarmi in pianto od in catene?

L. Se ti vedesse qui, malconcio fante,
il ghibellin, amico tuo di parte, *7
come tu arrotoli carta all'istante
e fumi il verso e rima rosseggiante
e le volute soffi basse in parte,
ti legherebbe al palo a ciel scoperto
nel posto più infame del deserto.
*7 Trattasi di Dante
LI. Eppur lui mi ha mandato e ti sostiene.
Col Creator litiga, e il pian mio raggira,
da paradiso a inferno lui va e viene
e malcontento col broncio sospira:
-Delle Fazion ho le scatole piene!
Sol una Italia unita ora m'attira,
qui fiera in terra natia e d'oltre mare,
che dignitosa morir sa e pregare!

LII. Di quel giudizio ne fui io vergognoso
e con la faccia maculata e prona
-dissi- con tono gioco e rispettoso:
Dante, maestro mio, scusa e perdona,
se m'è dolce il tuo si che puro suona;
non mi negare forza e tua immagine
se pur fumato ho le tue pagine!

LIII. Eh! –mi rispose- il diavolo stizzito.
Prima fumate, orgiate e poi rompete,
e infin ti mostri col pianto pentito;
t'adiri, sputi, persin su pianete
anche bestemmi villan incallito
e prima di morir chiami il tuo prete.
Così cambiate sensi, faccia e pori
coi sentimenti caldi dentro e fuori.

LIV. Anche il tuo Dante per benino fece:
ad inferi cacciò re e lor legati
e dagli amanti volle sentir prece,
ebbe timor, pietà  dei condannati.
Lieto trovar chi far potè in mia vece,
riempi l'inferno di uomini cerchiati.
Se non che scrisse poi anche il paradiso
E coi santi cambiò il ner suo viso.

LV. Aver fiducia di voi come posso?
Ghibellin, Guelfo, Siculo o Campano,
create sofismi per non saltar fosso;
volete monte quando state in piano;
per vender niente sparate all'ingrosso
dimenticando firma e stretta di mano.
E per far burla d'ogni cosa a tutti
presto perdete del lavoro i frutti.
LVI. Così pur Mussolini, il tuo Benito:
prima repubblicano mangia preti,
poi fascista al poter col suo Partito.
In corsa: leggi, riforme e decreti
perchè la donna prenda un sol marito
e d'esser madre il suo lavor non vieti.
Salutar Duce e Re con volto fisso
e sopra a lor il Cristo Crocifisso.

LVII. Poi divenuto l'uom Provvidenziale
per la Nazione tutta allor credente,
e per il sogno di Roma Imperiale
soddisfatti il fascista e il combattente,
io allor, demonio, ruppi credenziale
e lo gettai nella fornace ardente
per una cotta a lui fallimentare
di triste guerra in cielo, terra e mare.

LVIII. Non lo potevo piùancor sopportare:
di forgiar lui gl'imperiali destini,
tener timon e vento e navigare
nei quattro mar, re di abissi marini
e, quadrate falangi comandare
con mistica d'eroici serafini.
Basta con grida sott'archi trionfali!
Basta Te Deum in chiese e cattedrali!

LIX. Giust'era ch'io muovessi, per mio onore,
tutte le forze infernal collegate
scuotendo Stati e popol di colore,
dando gran forza a Division Alleate
e, a Croci e Fasci, posti in disonore,
nelle città  con violenza bruciate
rifar il mazzo con lucide carte
mistificando i sentimenti ad arte.

LX. Era suonata l'ora del dominio,
lo scatenarsi della mia potenza,
scura, malefica di gran sterminio,
brutalità  orrori senza clemenza
e tanto sangue vermiglio e carminio
col puro sadismo di bruta violenza.
àˆ questo il mondo ch'io voglio e tanto amo,
al primo impasto e peccato d'Adamo.

LXI. Di guerra son io l'unica espressione.
A mio piacer muto e giro le sorti
e giungo a questa o a quella conclusione
a danno di quel re o duce e sue corti.
E a tutti voglio dare dannazione,
più a voi per grazia di Cristo risorti,
che preci e ori fondete con campane
per forgiar elmi e armi e lievitar pane.

LXII. Orsù, correte sui campi in battaglia
levando braccio in romano saluto
al gran "spaventapasseri" d'Italia.
Dinanzi ai grandi eventi starà  muto
e tutto brucierà : il pane e la paglia,
e tradimento sarà  in voi compiuto.
Sempre nel vostro caos e disordine
cambierete parola fuor d'ordine.

LXIII. "O Dio, mio Dio, perchè solo mi lasci
nella tristezza in quest'ora di tenebre
e al demonio permetti che mi sfasci
e sua vendetta chiuda le mie palpebre
e a noi soldati con o senza fasci,
con allegrezza canti per noi il funebre
lamento di sconfitta e nostra morte
aprendo eterne infernal sue porte?"

LXIV. Allorchè il diavol sentì la preghiera,
si rivoltò sulla sabbia rabbioso.
Coda, corna e occhi girò come fiera;
con cattiveria mi puntò bavoso
la rossa man tra me e lui qual barriera,
e di colpo divenni ai suoi occhi ombroso.
Proprio tu, parli –gridò- che in cimento
Lagnanze muovi e preci con lamento.

LXV. La tua protesta per il pan, ricordi?
àˆ marmorea con muffa la galletta,
e malamente cinghia e freno mordi,
perchè a mutar cose nessuno ha fretta,
e parli e strilli con ciechi e con sordi
a cui la scarpa non andrà  mai stretta.
àˆ controproducente rimostranza
non osservar adatta circostanza.

LXVI. Ti ritorna a mente quel sorsetto fatto,
quando due litri d'acqua per borraccia
razion del giorno con il caldo matto,
per rinfrescarti ti fu dato in faccia
un gavettino giornaliero, a patto:
d'andare per deserta piana a caccia,
sulla tedesca pista di ner fusti,
di taniche e bidon di tutti i gusti?

LXVII. Eran quei vuoti, sporchi di benzina,
nafta maleodorante, grassi ed olio,
un bell'intruglio con acqua salina
per annaffiar la tua arida "erba voglio"
e farti correr da buca a buchina
senza uno straccio morbido per foglio.
Prima guerriera è la dissenteria
che tutti mette in fuga sulla via.

LXVIII. Or che serviva tua dura protesta,
se aver rugiada di fresco mattino
per ritoccar il viso, era gran festa?
L'iride laverai e il cristallino
col molto pianto che amaro ti resta!
Tieni a mente, testardo folgorino,
quando uscirai da buca e da giaciglio,
ove per nulla invochi il Padre e il Figlio.

LXIX. Con calma mangia la tua scatoletta,
è così gonfia da saziar le brame
tue e delle mosche che calano in fretta,
picchian a nuvole, ronzan a sciame,
tutte cacciandosi per gola stretta
come se impasto fosse di letame.
Se questa carne è l'unica rimasta,
il protestar, di più ancor la guasta!

LXX. Forse ti arriverà  proprio stasera,
prima del cambio della guardia ai posti:
o pastasciutta o riso di gruviera,
con condimento di special arrosti
e fine sabbia mischiata in zuppiera,
per basso prezzo sui statali costi.
Non preoccuparti se tutto è stracotto,
basta che non t'arrivi l'ottantotto!

LXXI. Ed anche bevi con soddisfazione
dolce, il caffè sempre per tutti amaro,
ma buono e d'ottima degustazione:
il vero moka imperial a te caro,
con tante nere mosche in emersione
per seguir d'ugula rossa, qual faro,
dentro lo scuro antro, il fatale corso
d'un sol veneficio quant'aspro sorso.

LXXII. Or al tuo mitra oleato e foderato
canta la ninna nanna e alza il mirino,
e come bimbo sul dondolo cullato
tu l'elmo lasciagli al par d'un cuscino
e dormi e sogna nel miraggio il prato,
piroette e salti, olè, bel cavallino!
C'è tanta gioia nei sogni lieti e belli
come giostrar per donne e lor castelli.

LXXIII. Via sui due piedi, al vol, se n'era andato.
Via finalmente, lasciando all'intorno
tutto quel puzzo di sua pelle e fiato
da far sgradito pur l'intero giorno,
persin a mosche quel fetor ingrato.
Avevo nei pensier sua coda e corno
ed in cuor e occhi il volto suo furente
e contro lui le mie parole spente.

LXXIV. Quanta tristezza profonda al pensiero
di quel giudizio così forsennato
potesse rispecchiar il triste vero
d'ogni parà  in balia del suo lasciato
morir disperso fuor del suo sentiero:
vano guerrier, inutil eroe dato.
Dove per nostra patria e fe' si lotta
non si cambia, a capriccio, giusta rotta.

LXXV. O dolce terra natia, qui mi porti
il profumo del campo appena arato
e del cipresso dei miei cari morti;
il calpestio dei bimbi sul sagrato
e la campana dei vivi e risorti
e il pianto lieto del primo tuo nato.
Tu sei lontana, ma qui tutta viva
Nel dur impasto della mia saliva.

LXXVI. Perchè non posso io amare la mia terra,
sentirmi tutto figlio e di lei fiero,
e far il mio dover in questa guerra
se non da eroe da fedele guerriero?
Qual bruta forza qui dentro sotterra
Lo spirto leal, semplice e veritiero,
facendo da girella e coccardia
per tradimento di nascosta spia.

LXXVII. Qual verbo sta, per noi, scolpito e scritto:
che non si debba morir da soldato
nella consegna fermo, saldo e dritto
e, dopo aver duramente lottato,
aver di se dignità , pur sconfitto?
Perchè divenir uom rosso e sbarrato
e fermi belva con canin e artiglio
se mio candor mostravo di bel giglio?

LXXVIII. Noi, in cosa abbiam nel presente mancato,
per or trovarci confusi e divisi,
se per quel poco e mal organizzato
per tutti siam ladruncoli derisi
che d'ogni cosa fan sfascio e mercato
con tanti bei quanto falsi sorrisi?
Di noi, non ha l'inglese alcuna stima
e l'ironia tedesca ognor ci lima.

LXXIX. Era il mio sguardo all'intorno rivolto
a veder spaghi di mine, bidoni
arrugginiti e nel groviglio folto
forse qualche uomo camminar carponi
con sterpi in testa per mascherar volto
e poi disinnescar i padelloni.
Ad osservar bene questi "giardini"
pur con l'intento di scoprir cecchini.

LXXX. Quanto maggior era il dover mio e impegno,
tanto l'artiglieria forte picchiava
con duri colpi magistrali a segno
e l'automezzo forte in due spaccava
come l'ascia tagliente il secco legno;
oppur su mine si moltiplicava
in tanti scoppi, in molteplici botti
quanti in raggera eran gli spaghi rotti.

LXXXI. Al caposaldo c'era andirivieni
d'un gran lavoro e di camminamenti
di parà  curvi con sacchetti pieni
per far piazzole nel giro dei venti,
con finestrella ad altezza di reni
difesa da spinati fil pungenti.
Un dur lavoro serio e silenzioso
sotto un sol caldo, bollente e rabbioso

LXXXII. d'anticipar in quella gran calura
il soffio caldo d'un vento impetuoso:
ghibli che sibila sulla radura,
leviga e turbina il coston roccioso
di rosso senape e cielo s'oscura
di sabbia ardente d'un mare sabbioso
che pungente si caccia in occhi e pelle,
in antri e buche ed in nascoste celle.

LXXXIII. Un mare di sabbia irato e tempestoso
Che sul costone infrange ululo e flutto;
di qui corrode, di là  ammucchia iroso
e il vortice alza e abbassa a fondo asciutto
e sul reticolato rugginoso
scaglia ed arrotola i resti di tutto:
fusti e bidoni, scatolette e stracci,
rotte coperte, teli e canovacci.

LXXXIV. Il mitra soffoca l'anima in canna.
Pronto s'inceppa prima otturatore
e la tua rabbia contr'esso si affanna.
Or batti il calcio, or smuovi il percussore,
ma ogni speranza l'estrattor inganna
e sul grilletto bestemmi il Signore.
àˆ ben che sia vento, sabbia e calore
portarsi via dell'armi il vil furore!

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