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Pubblicato il 15/07/2016

LA STAMPA PARLA DI MOSUL: IL LUOGO DOVE IL NOSTRO GIORNALE E’ “IN DIRETTA” DA MESI

PARMA- Il bravissimo giornalista Grignetti de LA STAMPA, inviato a Mosul, ha pubblicato oggi un bellissimo articolo, che Vi riportiamo. Congedatifolgore ha già fatto diversi sopralluoghi alla Diga per motivi non solo giornalistici.

LA STAMPA
del 15 luglio 2016

È giorno di ispezioni, a Mosul. Siamo alle spalle della malandata diga che fornisce acqua e elettricità a mezzo Iraq.

Qui sta sorgendo a tempo di record un campo che è per metà un enorme cantiere edile e per metà un moderno castrum. Tecnici della ditta Trevi e bersaglieri lavorano gomito a gomito da qualche settimana. Già sarebbe difficile intervenire su una struttura del genere in un’area estrema come il Kurdistan. Ma qui si combatte ad appena 20 chilometri di distanza.

I miliziani dell’Isis e i peshmerga si fronteggiano lungo un fronte che ricorda la Prima guerra mondiale. Trincee, posti di osservazione, nidi di mitragliatrice, artiglieria. Il pericolo è dietro l’angolo. Ma riparare la diga si deve. E questa è la novità di una decisione che è stata presa personalmente da Renzi e dalla ministra Pinotti. Per la prima volta una missione militare italiana nasce per fronteggiare una potenziale crisi umanitaria che però sarà una ditta civile a risolvere. La missione avrà successo, insomma, soltanto se tutti, civili e militari, faranno la loro parte.

Ed ecco perché ad accogliere il generale R. in ispezione (per motivi di sicurezza in questo articolo non potrà comparire alcun cognome per esteso, né una faccia riconoscibile) al campo di Mosul oggi ci sono assieme il colonnello P. e l’ingegnere M. che hanno molte cose da mostrargli. Innanzitutto l’avanzamento dei lavori: il campo base sta prendendo forma, un quadrato grande come venti campi di calcio, circondato da un reticolato, una trincea, un muro di cemento alto tre metri. Al centro del campo oggi ci sono una quarantina di tende dove dormono i bersaglieri e i tecnici. Tra due mesi ci sarà una città con casette prefabbricate per ospitare fino a millecinquecento persone.

Bunker sotterranei

L’ingegnere M. ha i suoi problemi: provvedere all’elettricità, all’acqua potabile, agli scarichi dei bagni, e poi la cucina, i frigoriferi, l’aria condizionata e tutto il resto. E ci sono quindi le caratteristiche atipiche di questo cantiere. Servono un paio di bunker sotterranei per mille persone, più una serie di riservette dove stoccare esplosivi e munizioni. Bunker perché non si può escludere in partenza che le cose vadano male. E allora, se il castrum della diga dovesse essere attaccato, serve un posto sicuro per i civili, in attesa che i militari rimettano le cose in ordine.

E qui bisogna sentire il maggiore R. che spiega: «Dobbiamo creare una larga area di sicurezza, ma dinamica, perché gli operai dovranno pur lavorare, entrare e uscire, ci sarà un gran movimento di camion. Sulle alture che circondano il cantiere già adesso abbiamo uomini che fanno osservazione giorno e notte, avremo pattuglie notturne e diurne, chi terrà sotto controllo l’area con i sensori». E si potrebbero aggiungere i radar, i droni, i satelliti, l’intelligence… Il colonnello P. aggiunge: «Sappiamo di avere a che fare con un nemico subdolo, cattivo, che non rispetta alcuna regola e non conosce umanità. Perciò abbiamo provato a pensare a ogni eventualità. I nostri bersaglieri sanno che se il jihadista si avvicina troppo, è tutto inutile. Perché qui non serve la classica perquisizione. Né possiamo metterci a sparare su tutto quello che si muove».

Il generale R. ascolta soddisfatto. Ha voluto accanto a sé per la prima parte dell’ispezione i capi delle forze locali curde. «Siamo qui – e nel dire se li stringe uno a uno – per voi e con voi. Il nemico è uno solo, noi dobbiamo essere una cosa sola».

Un po’ di retorica non guasta. Annuisce il giovane capitano curdo dei Gorran, le forze speciali dei peshmerga. E annuisce anche il brusco colonnello dell’intelligence militare che non si toglie mai gli occhiali da sole, nemmeno al chiuso. Spetta a loro la tenuta del fronte, ma anche il controllo ai diversi posti di blocco tra l’area più calda e la zona del cantiere. «Si potrebbe arrivare anche a pattuglie miste. Ma per il momento ci siamo divisi i compiti. L’importante è che loro sappiano dove siamo noi, e viceversa. E che nessun malintenzionato possa avvicinarsi senza essere stato controllato».

Fino a 50 gradi

È accaldato e stanco, dunque, con mitra, giubbotto antiproiettile e elmetto, il bersagliere che fa la guardia all’ingresso del cantiere, ma la sua presenza è più che altro simbolica. La vera sicurezza è garantita dal sacrificio di tanti suoi colleghi – italiani, curdi, statunitensi – che stanno acquattati in cima alle colline circostanti, nascosti in buche quasi invisibili, armati fino ai denti, e senza potersi allontanare dal punto di osservazione nemmeno quando il sole si fa a picco. Il caldo, però, è il primo dei nemici qui dove il termometro raggiunge i 50 gradi.

L’ispezione, intanto, va avanti. I tecnici di Mosul fanno strada nelle viscere della diga. Nacque male, nel 1982, quando Saddam volle qui a tutti i costi un enorme bacino da 11 miliardi di litri, punto più profondo di 330 metri e strati geologici debolissimi. In profondità vi sono strati di gesso che s’impregnano di acqua e che vengono svuotati ininterrottamente fin dal giorno dell’inaugurazione. Non solo: da sempre i tecnici iracheni sanno che lo strato di gesso va tenuto sotto controllo e vanno fatte iniezioni di cemento. Due mesi di occupazione da parte dell’Isis, però, hanno creato danni micidiali. Ci sono serie preoccupazioni che la diga possa cedere e che si crei una micidiale ondata di piena alta fino a 10 metri che farebbe impallidire il ricordo del Vajont.

Questa la sfida per la ditta Trevi. «Abbiamo attrezzature e know how per mettere la diga in sicurezza – racconta ancora l’ingegner M. – con perforazioni ed iniezioni di miscele cementizie, oltre a lavori di riparazione e manutenzione delle gallerie di scarico oggi danneggiate».

La sfida dei militari, invece, è garantire che l’Isis non faccia scherzi. «Sappiamo bene che basterebbe un solo colpo sugli italiani, che siano quelli della ditta o noi, e l’effetto mediatico sarebbe immenso anche se insensato per la loro guerra. Ma d’altra parte sono terroristi, no?». Già, terroristi. E per questo motivo la base deve essere resa inavvicinabile già a chilometri di distanza. «E sarà così», dice il generale, sicuro di sé e dei suoi uomini. «Gli americani sono venuti a vedere che cosa stiamo facendo. Tutto a posto anche per loro». Poi, certo, i militari sono tenuti a fare i piani. E quindi hanno previsto anche il ripiegamento, ma convinti che non servirà.


Il caffè con la moka

I bersaglieri, intanto, sono arrivati da Trapani e sono solo i primi cento di un contingente da 500 uomini e donne che terranno la posizione per i prossimi sei mesi. Ride il maresciallo T., veterano di tante missioni: «Il caldo mi ricorda quello dell’Afghanistan, comunque siamo a pronti a tutto. E per il momento facciamoci un caffè con la moka. Abbiamo portato tutto dall’Italia». Un classico di Casa Italia. Ai curdi si illumina il volto. Il colonnello dagli occhiali scuri per la prima volta sorride all’altro: «Aspettiamo un attimo prima di andare». E si accomodano. L’ingegnere ride: «Hanno assaggiato un espresso all’italiana la volta scorsa».

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