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Pubblicato il 01/02/2019

RASSEGNA STAMPA: NONNISMO IN MARINA. “TORTURATA” PER TOGLIERLE UN ANELLO

La Stampa (Ed. Nazionale)
sezione: Italia data: 01/02/2019 – pag: 14

Nonnismo alla scuola della Marina “Torturata per togliermi un anello”

La denuncia a La Maddalena: “Operata con arnesi da meccanico, mi tenevano bloccata” I militari: avvisati con una lettera, avviata un’inchiesta interna. Indaga la procura di Roma

Era un ordine e a lei hanno insegnato a rispettarlo. E anche a costo di soffrire ha preferito non disobbedire. Ma quello che è successo nella scuola sottufficiali della Marina militare di La Maddalena sembra rientrare pienamente nell’ambito dei reati. Perché tutto ciò che è stata costretta a subire una giovane sottocapo, attualmente imbarcata sulla prestigiosa nave scuola Amerigo Vespucci, ha esattamente le caratteristiche di una tortura. «Mi sembrava di essere la protagonista di un film horror – racconta la marinaia in una relazione di servizio che per mesi è rimasta nascosta negli archivi della caserma -. Hanno usato un seghetto affilato, un paio di tronchesine, nastro isolante e fascette da elettricista per rompere l’anello che mi si era incastrato nel dito. Mi hanno impedito di andare in ospedale e mi hanno sottoposto a una sofferenza allucinante».

Tre ore e mezza da incubo ricostruite nella «dichiarazione spontanea» firmata il giorno dopo l’episodio e che non si sa che fine abbia fatto. «Il comando della scuola ha ricevuto una lettera solo dopo che la ragazza è stata trasferita – fanno sapere dalla Marina militare – Abbiamo avviato un’inchiesta interna, appureremo le responsabilità». Nel frattempo, la sottocapo di 28 anni di Bari ha preso servizio sulla Vespucci, è stata interrogata a La Spezia e sul caso ha aperto un fascicolo anche la Procura militare di Roma.

A organizzare il tutto (era il 30 di ottobre) è stato un ufficiale, un capitano di corvetta, e all’operazione chirurgica con arnesi da meccanico hanno assistito anche altri militari. Tutti di grado inferiore, che quindi non hanno potuto far nulla per salvare la collega. E a niente è servito il parere dell’ufficiale medico in servizio che aveva ordinato di accompagnare la ragazza in ospedale. Nel documento finito in procura ci sono nomi, cognomi, gradi, orari precisi e dettagli da brivido. «Tutto è iniziato mentre mi accingevo ad uscire dalla caserma per andare al pronto soccorso: il capitano di corvetta mi ha bloccato e ha ordinato a due colleghi di prendere la cassetta degli attrezzi dalla sua auto. Mi ha fatto andare nel suo ufficio e quando ha tirato fuori il seghetto per me è iniziato il terrore. I primi tentativi di spaccare l’anello mi hanno provocato ferite e dolori allucinanti, temevo di perdere il dito e ho perso le forze e la parola. Al terzo tentativo il mio dito è stato avvolto con nastro isolante per cavi elettrici ma non è bastato. Al quarto il capitano ha ordinato a un maresciallo di impugnare una tronchesina e insieme hanno tentato di strappare l’anello. Il dolore è stato fortissimo». In preda al panico, la ventottenne ha provato a ribellarsi, ma il comandante non le ha dato il permesso di uscire dall’ufficio, diventato in un attimo in una specie di stanza delle torture. «Sono scappata vicino alla finestra, piangevo e chiedevo che la smettessero ma mi hanno preso e mi hanno bloccato sulla stessa sedia. Hanno tirato fuori un’altra tronchesina e hanno cercato di stroncare l’anello sulle due estremità, rischiando però di schiacciare anche il mio dito. Non è bastato, eppure non si sono arresi. La mia mano era insanguinata e un collega ha rovesciato una bottiglia d’acqua gelata per tentare di raffreddare il dito, che era già viola, gonfio, pieno di ferite e bolle da ustione. Ma nonostante questo il capitano ha ripreso il seghetto: sono riuscita a fermarlo e allora ha preso un tagliacarte e l’ha infilato tra l’anello e il dito ferito. Dopo il supplizio l’anello si è rotto e me lo hanno strappato tirando con le pinze su due estremità e provocando altre ferite. Poi mi hanno accompagnato in infermeria e messo dei cerotti per chiudere la ferita. Ma la sofferenza non è finita».

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