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Pubblicato il 31/03/2018

ENTEBBE 1976 – IL PRIMO RAID DELLE FORZE SPECIALI ISRAELIANE CONTRO DIROTTATORI

sayeret.israeliano

cortesia IL MESSAGGERO
Fu la più audace e brillante azione militare del ventesimo secolo. Più rischiosa di quella di Eban Emael, dove un pugno di paracadutisti tedeschi conquistò, nel 1940, l’inespugnabile fortezza del Belgio; più fortunata di quella di Saint Nazaire, dove i commandos britannici fecero incagliare ed esplodere un loro cacciatorpediniere bloccando il porto; e più complessa di quella dei nostri incursori ad Alessandria, quando sei uomini e tre maiali distrussero mezza flotta inglese. Il mondo rimase annichilito dall’ammirazione e dallo stupore quando, la domenica del 4 Luglio 1976, un gruppo di israeliani, dopo un volo di duemila miglia, atterrò all’aeroporto di Entebbe in Uganda, neutralizzò le guardie di Amin Dada, eliminò otto terroristi e liberò più di cento ostaggi destinati a morte sicura. Quando i soldati rientrarono in patria furono accolti da un’ondata di emozione quale mai era stata vista in Israele dai tempi di Giuda Maccabeo. Una vittoria pagata con la vita del loro comandante, il colonnello Yonathan (Yoni) Netanyahu, di 30 anni: un volto di attore, un cervello di filosofo e un cuore di leone. Molti, ancora oggi, si domandano se la carriera politica di suo fratello Benjamin sia stata facilitata da questo nome glorioso.
LA SOSTA
Tutto era cominciato una settimana prima quando un Airbus 300 della Air France, con 248 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio, era stato dirottato da quattro terroristi, due tedeschi e due palestinesi, e dopo una sosta in Libia era atterrato ad Entebbe. Le richieste furono immediate: la liberazione di 53 militanti detenuti in Israele e altrove o la soppressione degli ostaggi. Incidentalmente, si chiedeva la scarcerazione del famigerato Kozo Okamoto, un fanatico giapponese che aveva assassinato 26 civili all’aeroporto di Lod.
Il governo di Yitzhak Rabin sulle prime esitò. La politica di Tel Aviv era sempre stata chiara: nessuna trattativa con i terroristi, anche a costo di perdite umane. Ma stavolta la cosa era diversa. L’aereo era francese, gli ostaggi di varie nazionalità, la distanza troppo lunga e il tempo troppo breve. Rabin, il generale protagonista della vittoria del 67, non era un ottuso guerrafondaio. La sua opera sarebbe stata coronata anni dopo dal premio Nobel per la pace, e dal successivo martirio ad opera di un altro fanatico: in quel momento una trattativa sembrava il male minore. Tuttavia le speranze svanirono quando fu chiaro che l’Uganda, e il suo pittoresco dittatore erano complici dei dirottatori, che nel frattempo erano raddoppiati di numero e avevano liberato gli ostaggi non ebrei. L’aeroporto di Entebbe era protetto dall’esercito, non per sorvegliare i banditi, ma per evitare la fuga dei prigionieri. Rabin e il suo ministro della difesa, Shimon Peres, consultarono i militari. Era possibile un intervento risolutore?
I VERTICI
Il capo di stato maggiore, Mordecai Gur, convocò i vertici dell’aviazione, dell’esercito e delle forze speciali. Furono esaminate molte possibilità: un’incursione con canotti attraverso il lago Vittoria, un lancio in grande stile di paracadutisti sull’aeroporto, o un intervento più mirato. Quest’ultima opzione era più realistica, le altre avrebbero richiesto più tempo, e uno spiegamento logistico imponente. Inoltre sarebbe mancata la sorpresa, e probabilmente sarebbe stata una carneficina. Si decise di mandare l’unità di élite, la Sayeret Matkal, rinforzata da elementi di paracadutisti e membri della brigata Golani: «il meglio del meglio», come disse il loro comandante, e come le circostanze avrebbero rivelato.
Le truppe si imbarcarono in quattro aerei Hercules, ed arrivarono in piena notte nell’aeroporto semideserto. I terroristi avevano ammassato i passeggeri nel vecchio terminal, tenendoli costantemente sotto controllo armato. Due degli ostaggi, reduci dall’Olocausto, avevano mostrato ai nuovi sgherri tedeschi il tatuaggio fatto ad Auschwitz, ricevendone in cambio ingiurie e minacce. Non si facevano illusioni, ma si comportarono con grande dignità. Il comandante dell’aereo, Michel Bacos, aveva voluto restare, con tutto il suo equipaggio, assieme a loro.
Improvvisamente si scatenò l’inferno. Netanyahu aveva portato i suoi uomini all’ingresso della prigione con uno stratagemma, guidando una sontuosa Mercedes nera solitamente usata dal balordo dittatore. Eliminate le guardie, i commandos irruppero all’interno, individuarono e uccisero i terroristi e liberarono i prigionieri. Nel frattempo dagli altri tre aerei erano sbarcati i rinforzi, incaricati di coprire la ritirata e di distruggere i Mig che avrebbero potuto inseguirli. In meno di un’ora tutto era finito. Il viaggio di ritorno fu straziato dall’agonia e dalla morte di Yoni, colpito da una fucilata mentre dirigeva lo sgombero. Un altro soldato, Sorin Mershko era gravemente ferito alla spina dorsale. Ancora oggi è completamente paralizzato, e si occupa di malati e invalidi. Una recente foto lo mostra sorridente, sulla sedia a rotelle, mentre riceve l’omaggio del primo ministro, fratello del suo commilitone caduto. Furono due perdite dolorose, ma straordinariamente esigue rispetto alle previsioni. Anche tra gli ostaggi, le vittime erano state solo tre.
LE CONSEGUENZE
L’operazione di Entebbe ebbe importanti conseguenze politiche e militari. Dimostrò l’efficacia dell’intransigenza nei confronti del terrorismo, quando essa si coniuga con una riflessione ordinata e una corrispondente efficienza operativa; evitò una catastrofica sequenza di ricatti, che avrebbero logorato altri paesi meno uniti e determinati di Israele; impose un potenziamento dei controlli aeroportuali, che ridussero, almeno fino all’11 Settembre di venticinque anni dopo, il numero dei dirottamenti e delle vittime. E soprattutto esaltò la forza morale e militare di Israele, una piccola democrazia in quel territorio martoriato, che seppe reagire con fantasia, coraggio e ingegno davanti ad un’aggressione vile e a un isolamento vergognoso. L’Onu infatti si distinse per la sua ordinaria inettitudine. Le democrazie occidentali oscillarono tra un sostegno di facciata e un’ammirazione un po’ invidiosa. Il mondo comunista schiumò di rabbia, ma ingoiò il rospo e imparò la lezione.
Israele fece buon uso del successo. Negoziando da posizioni di forza, condusse molti paesi arabi al tavolo delle trattative. Rabin e Sadat pagarono con la vita questo processo di pace. Il resto è cronaca, per lo più dolorosa: in Medio Oriente, come altrove, l’aggressività della nostra natura è soltanto temporaneamente, e forse casualmente, mitigata dal buon senso. Yoni Netanyahu, studioso di filosofia, lo sapeva perfettamente. In una lettera alla moglie, anni prima, aveva scritto: «Che strano animale è l’uomo. Questo è un mondo di matti».

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