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Pubblicato il 05/01/2016

ACCADEMIA DI MODENA- LEZIONE DEL PROFESSOR ( PARACADUTISTA 76-77) ALLODI: IL PATRIOTTISMO E’ (ANCORA) UNA VIRTU’

foto cortesia www.perseonews.it

Nota della Redazione
Il Professor Leonardo Allodi, associato di sociologia dei processi culturali presso l’università degli studi di Bologna, ci ha chiesto di non citare il suo titolo accademico ma solo il grado di Caporal Magiorre Paracadutista della Folgore ( 1976-1977). Abbiamo trasgredito. Non potevamo non sottolineare le sue qualifiche accademiche, visto che 15 dicembre 2015 è stato relatore di una vera e propria “lectio” in occasione della presentazione del CalendEsercito 2016 nell’aula magna dell’ Accademia militare di Modena. L’amico di CongedatiFolgore, generale in congedo Carmelo Abisso, direttore del giornale telematico Perseo News, l’ha pubblicato. Lo riprendiamo perché è una lezione ricca di contenuti, di alto profilo culturale e perfettamente coincidente con le nostre opinioni .
Walter Amatobene

Il patriottismo è (ancora) una virtù.
Ce lo ricorda CalendEsercito 2016

di Leonardo Allodi

Mi è stato chiesto di sviluppare una riflessione sul mutamento socio-culturale oggi in atto, un mutamento che a volte sconcerta, e che in settori non irrilevanti della nostra società e cultura, quasi pretende di chiamare in causa la Rangordnung (così la chiamerebbero i tedeschi), l’Ordo amoris, direbbe il grande Agostino, cioè la gerarchia stessa dei valori a cui, da sempre, risultano ancorate le scelte più decisive della nostra stessa vita ed esistenza. E, come ci ricorda il Calendesercito 2016, quelle più estreme e nobili.

Una riflessione che attinga appunto dalle storie a cui ci rinvia questo Calendesercito 2016. Storie che hanno la forza morale di dare al nostro tempo una misura più alta, di dare al nostro tempo le coordinate necessarie per misurare se stesso e noi stessi, per cogliere di questo tempo le intatte potenzialità, ma anche i limiti e le contraddizioni.

Questo calendario, che molti di noi appenderanno nel proprio luogo di lavoro, è destinato a diventare qualcosa di familiare, qualcosa di altamente simbolico ed evocativo, e per questo capace di riscattare il nostro tempo da quello che Roger Scruton, un grande filosofo inglese contemporaneo, indica come il più evidente paradosso che segna la cultura contemporanea, che assai spesso si presenta come “cultura del rifiuto e del rigetto”: e cioè il fatto che la (giusta) stigmatizzazione della “xenofobia” stia generando, più o meno inconsapevolmente, una altrettanto stigmatizzabile “oicofobia”, a sua volta derivata da quella che A. Finkielkraut ha recentemente chiamato “identità infelice”. 1

Dicevo, qualcosa di evocativo e paradigmatico, così come sempre si rivela ciò che ci parla della vita, di vite in cui si sono incarnati i più alti e nobili valori della nostra umanità. Nell’angolo in cui sarà appeso questo Calendario – è certo – potremo volgerci sicuri di ritrovare il nostro mondo, di ritrovare un senso di amicizia con esso e con la nostra Patria, consapevoli che quel che il Calendario ci suggerisce è la possibilità di un dialogo veritativo e non angusto con la nostra epoca e le sue contraddizioni.

Definizioni come “modernità liquida” (Z. Baumann), “epoca del congiuntivo categorico” (H. Schelsky), “crescere in una società eticamente neutra” (P.P. Donati), epoca dell’individualismo e del narcisismo (C. Lasch), “cultura e società contemporanee che gli uomini sperimentano come una perdita o un declino anche se la nostra civiltà si sviluppa”, “epoca delle passioni tristi” (Benasayag e Schmidt), ci rivelano il compito di indagare più a fondo il disagio culturale in cui l’umanesimo occidentale sembra precipitato. Compito urgente è certo quello di precisare le coordinate culturali di questo nostro tempo, evitando che, almeno sul piano delle grandi convinzioni ideali, “le misure del nostro tempo determinino le nostre misure”.
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Come dice A. MacIntyre, uno dei compiti centrali del filosofo morale e del sociologo della cultura è quello di “articolare le convinzioni della società in cui vive, in modo tale che queste convinzioni possano divenire accessibili all’esame razionale”2. Un compito che “si fa tanto più urgente quando una stessa comunità….trova al proprio interno lealtà morali concorrenti, …che sono l’espressione di una varietà di credenze in conflitto e talora incompatibili tra loro”3.

Occorre rendere esplicita la posta in gioco nei vari disaccordi: questo è quanto mi propongo di fare nell’arco della breve riflessione che mi è stata affidata e di cui ringrazio l’Accademia militare di Modena e il suo comandante.

Liberalismo dei valori e liberalismo della neutralità

Si potrebbe sintetizzare l’idea direttrice che contrassegna l’evoluzione socio-culturale contemporanea, italiana (e, più in generale, occidentale) con la seguente formula: nel giro di pochi decenni siamo passati da una concezione classica della libertà ad una concezione della libertà che costituisce una novità assoluta nella storia, e cioè una libertà che si autodetermina, autosufficiente, che vede nei valori classici più un ostacolo che non una opportunità di crescita e fioritura interiore. La filosofia politica distingue, in tal senso, fra un liberalismo dei valori e un liberalismo della neutralità, distinzione che uno dei massimi filosofi morali del XX secolo, e cioè Leo Strauss, pone alla base di una sua opera decisiva.4 Nell’introduzione a tale opera, proprio Leo Strauss, interrogandosi sul vero senso che dobbiamo attribuire all’idea di libertà e di educazione, osserva:

“L’educazione liberale, che consiste nel rapporto costante con i pensatori più grandi, prepara alla forma più eccelsa di modestia, per non dire di umiltà. E nello stesso tempo educazione ad essere sicuri di se stessi: richiede la rottura completa con il chiasso, la fretta, la spensieratezza, la meschinità della fiera delle vanità degli intellettuali come pure dei loro nemici. Richiede la sicurezza la sicurezza di sé, necessaria per considerare come semplici opinioni medie i punti di vista più accettati, o per considerare le opinioni medie come opinioni estremistiche che hanno almeno la stessa probabilità di essere errate delle opinioni più stravaganti o triviali. L’educazione liberale è liberazione dalla volgarità. I greci avevano una bellissima parola per indicare la volgarità: la chiamavano apeirokalia, mancanza di esperienza di cose belle. L’educazione liberale ci fornisce l’esperienza di cose belle”5.

Leo Strauss ci suggerisce l’idea che la negazione dell’idea di bellezza e di verità, implica la negazione stessa dell’idea di libertà e di educazione6.

Sradicamento. Bisogno di radici e società pluralistica

La immediata conseguenza di un modo neutralistico e relativistico di intendere la libertà, cioè un modo che appunto perde di vista il senso di un ordinamento oggettivo di valori (e che, per dirla con J.J. Rousseau, il padre di questa concezione, assume il principio che la “libertà si autodetermina”, in quanto non riconosce fonti morali esterne a se stessa) è quello che molti sociologi della cultura, non ultimo Z. Bauman, hanno chiamato, “sradicamento”.

Per comprendere appieno questo fenomeno, che costituisce un problema centrale dell’evoluzione socio-culturale del mondo occidentale, e che molti studiosi, ad esempio H. Arendt, collegano direttamente con la nascita dei totalitarismi nel XX secolo, e che, più recentemente, sociologi come Wieviorka o Finkielkraut collegano al diffuso disagio delle periferie francesi e di ampi strati della società europea, e nel quale si riflette un vero e proprio fallimento di un certo modo di intendere il multiculturalismo, permettetemi di riferirVi un episodio, che, anche se ci riporta indietro nel tempo (mostrando come la radice dei nostri problemi attuali è comprensibile nei termini della “lunga durata” della storia”), mi sembra molto significativo, particolarmente emblematico.

L’episodio è riportato da Mircea Eliade, probabilmente il più grande storico delle religioni del XX secolo.7 Un episodio a cui aveva assistito uno dei suoi professori dell’Università di Bucarest e relativo ad un ciclo di lezioni che il famoso storico Theodor Mommsen aveva tenuto presso l’Università di Berlino. (T. Mommsen – lo dico per i più giovani – è il maggiore tra gli studiosi del mondo antico romano vissuto nel XIX secolo e Premio Nobel nel 1902);
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“Siamo nei primi anni Novanta dell’Ottocento, Mommsen era già molto vecchio ma la sua mente era ancora lucida e la sua memoria straordinariamente precisa, senza lacune. Nella prima lezione descrisse Atene al tempo di Socrate. Andò alla lavagna e tracciò senza l’aiuto di un solo appunto, la pianta della città com’era nel quinto secolo; passò quindi alla collocazione dei templi e degli edifici pubblici e mostrò i punti in cui si trovavano fonti e bischetti. Particolarmente impressionante fu la vivida ricostruzione dello sfondo ambientale del Fedro. Dopo aver citato il passo in cui Socrate si informa di Lisia e Fedro risponde che sta da Epicrate, Mommsen indicò la collocazione della casa di Epicrate… Mommsen segnò quindi il percorso che Socrate e Fedro compirono nella loro passeggiata lungo il fiume Ilisso, indicando il luogo in cui probabilmente si fermarono e tennero un dialogo memorabile: il “posto tranquillo” in cui sorgeva l’”altissimo platano”. Un dialogo sulla missione del filosofo. Finita la lezione, chi l’ascoltò, potè osservare come un attempato servitore dopo aver preso sotto il braccio il vecchio Mommsen, lo guidò all’uscita. Qualcuno spiegò che il famoso storico non sapeva tornare a casa da solo. Il maggior conoscitore vivente dell’Atene del V secolo era un individuo completamente sperduto nella sua stessa città, la Berlino guglielmina”8.

Questo episodio illustra in modo esemplare che cosa significhi “vivere nel proprio mondo”. Il mondo reale di Mommsen, ricorda Eliade, l’unico che per lui aveva importanza e significato, era il mondo greco-romano. Mommsen viveva come sospeso tra due mondi: il mondo che per lui era diventato un cosmo, gravido di valori e di significati, una sorta di “mondo sacro”, e il mondo in cui si trovava “gettato” per usare una espressione di M. Heidegger. Eliade parla di una sorta di “amnesia” di Mommsen per lo spazio urbano della Berlino moderna e caotica.

Si potrebbe ora, dopo aver narrato questo episodio, far riferimento al grande dibattito sulla “metropoli” che ad esempio si sviluppa agli inizi del Novecento nell’ambito della grande cultura sociologica tedesca, e che ha coinvolto figure di primissimo piano come W. Sombart, G. Simmel, lo stesso W. Benjamin. Basterà ricordare il grandissimo saggio di G. Simmel, Die Grossstadte und das Geisteleben del 1900, con quella sua tesi per cui “il fondamento psicologico dal quale si leva il tipo della personalità metropolitana è l’intensificazione della vita nervosa. Questa intensificazione nervosa appare collegata per Simmel al rapido mutare delle impressioni interne ed esterne, alla “innovazione continua” e quindi in diretta contraddizione con il carattere tradizionale-mitico della vita “rurale”, premoderna. In questa situazione, dice Simmel, l’uomo si sublima nella creazione di un “organo” che lo protegge dalle minacce dello sradicamento, e cioè egli “invece che con l’animo reagisce con l’intelletto e con l’intensificazione della coscienza”.

Fermiamoci, qui. Per ora ci basta aver richiamato l’idea che “poeticamente abita l’uomo” (Hölderlin), cioè che l’uomo non agisce soltanto, come pure ha osservato W. Otto “secondo leggi e principi, ma anche secondo modelli, dunque secondo immagini, forme, ideali. Ed è proprio in queste forme, che abbiamo dinnanzi agli occhi, che non si fanno scacciare, che dobbiamo seguire, che ci umiliano, se non le seguiamo, è proprio in queste forme che si rivela una conoscenza che possiamo definire simbolica, o mitica”. Per questo gli uomini e le istituzioni hanno bisogno di monumenti e, appunto, anche “Calendari”.9

Recentemente sia politologi come March e Olsen o in Italia R. Cartocci, sia, meno recentemente, antropologi come C. Tullio-Altan hanno insistito sulla distinzione tra conoscenza concettuale e conoscenza simbolica, connettendola alla distinzione che in sociologia si opera fra “aggregazione sociale” e “integrazione sociale”. Vari autori insistono sull’”ostracismo con cui gran parte della tradizione filosofica e scientifica occidentale ha condannato il pensiero simbolico, considerato come una forma di irrazionalismo insondabile”. Viceversa C. Tullio-Altan, ha osservato come pensiero concettuale e pensiero simbolico originano da operazioni cognitive differenti: “se il concetto dà senso all’oggetto in quanto utile, il simbolo dà senso al soggetto offrendosi come valore con il quale identificarsi e dal quale ricevere ispirazione e guida per vivere moralmente nel mondo”10. Il pensiero simbolico implica “partecipazione affettiva”, la quale è appunto una delle modalità più caratterizzanti dell’esperienza simbolica. C. Geertz, addirittura arriva a sostenere che “solo quando disporremo di un’analisi teorica dell’azione simbolica, paragonabile per raffinatezza a quella che ora abbiamo per l’azione sociale e psicologica, saremo in grado di affrontare validamente quegli aspetti della vita sociale e psicologica in cui la religione, l’arte e altri ambiti culturali specifici svolgono un ruolo determinante”11. Vorrei concludere questa prima parte della mia riflessione sottolineando un risultato a cui ormai sociologia e fenomenologia dell’esperienza simbolica sembrano essere giunte da tempo: simboli, simbolismi, simboliche costituiscono un principio integratore, una struttura generativa necessaria a tutte le culture per esistere, conservarsi e progredire (Herskovits). Allo stesso modo, del rito possiamo dire che esso si situa al punto di intersezione tra natura e società, cultura e religione. In una parola: la conoscenza simbolica, secondo vari studiosi svela una realtà, una modalità del reale, un aspetto essenziale della struttura del mondo. Ma il simbolo dà anche senso all’esistenza dell’uomo: “Se l’uomo, dice Eliade, sente tramite i simboli, di far parte del cosmo, se sente di non essere più isolato, se riesce a superare la soggettività della sua situazione oggettivandola in una prospettiva universale, in realtà egli raggiunge lo stato d’animo ideale per organizzare il suo mondo terreno. Dunque il simbolo ha anche una funzione storico-sociologica”12.

Occorre anche aggiungere che la conoscenza simbolica e con essa la religione aiuta a mantenere “l’apertura” verso un mondo sovraumano, il mondo dei valori assiologici, e non si traduce affatto, come potrebbe sembrare, in “una eterna ripetizione della stessa cosa”. Dice ancora M. Eliade: “attraverso la ripetizione dei miti e degli archetipi infatti il popolo conquista infaticabilmente il mondo, lo organizza, trasforma il paesaggio naturale in ambiente culturale. In virtù del modello esemplare rivelato dal mito cosmogonico, l’uomo diviene anch’egli in un qualche modo “creatore”. I simboli e i miti, cioè, non paralizzano come potrebbe sembrare l’iniziativa umana, presentandosi come modelli intangibili, essi in realtà spingono l’uomo a creare, aprono continuamente nuove prospettive al suo spirito inventivo”13. Ha ragione in questo H. Sedlmayr quando osserva che anche “le nostre città sono frammenti copiati dal nostro cuore; e le Babilonie insite nell’uomo cercano soltanto di comunicare le grandezze del suo cuore babilonico”14.

Mircea Eliade, paragona noi moderni ormai incapaci di comprendere e vedere il “simbolismo culturale dello spazio” a quei funzionari della dogana di New York che, agli inizi del secolo scorso, si erano rifiutati di ammettere che certe sculture di Brancusi – ad esempio Mademoiselle Pogany e Una musa – fossero davvero delle opere d’arte e le avevano pesantemente tassate come blocchi di marmo. Eliade ricorda “che non si dovrebbe giudicare troppo severamente gli agenti della dogana di New York, visto che nella causa che ne seguì almeno uno dei principali critici d’arte americani dichiarò che Mademoiselle Pogany e Una musa erano effettivamente semplici blocchi di marmo levigato”15.

Ora, i fronte alla immediata e spontanea identificazione che avvertiamo scorrendo le storie e le biografie che compongono questo Calendario, ritorna alla mente una lucidissima espressione del sociologo Cristopher Lasch: “lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di radici”. Queste storie ci aiutano anche a trovare una risposta, ad aprire una strada in quello che a molti sembra un dilemma irrisolvibile, e cioè: come “trovare il modo di soddisfare il nostro bisogno di radici in una maniera che sia conciliabile con la struttura pluralistica della società in cui viviamo e con i principi universalistici che stanno a fondamento della cultura occidentale”16, il che significa: come fare della nostra società e della nostra Patria una “comunità liberale”.

Riscoprire le radici dell’Europa: Atene, Gerusalemme, Roma

Nel suo studio del 1926, “Uomo e storia”, il filosofo Max Scheler, ha osservato “In nessuna epoca come nella nostra le idee relative all’essenza e all’origine dell’uomo sono state così incerte, indeterminate, diversificate”….”la nostra epoca è la prima, in diecimila anni di storia, in cui l’uomo è divenuto pienamente e senza limiti un problema per se stesso, in cui non sa più che cosa egli è, ma insieme sa di non saperlo”. Quella che viviamo ancora oggi è una sorta di “emergenza antropolgica” la cui radici affondano nei secoli scorsi e, in parte, nella stessa natura filosofica della cultura occidentale. Il “mettere in dubbio” e pure il “mettere in dubbio il dubbio”, costituisce una tendenza intrinseca della cultura occidentale, segnata dunque da una tendenza all’autorelativizzazione, che, tuttavia, solo negli ultimi secoli ha pericolosamente confuso “relatività” e “relativismo”. La cultura occidentale è per sua natura universalistica, non relativistica. Questa natura ha a che fare con quella che possiamo definire “Virtus europea”17.

L’Università stessa è l’istituzione che ruota intorno a questa fondamentale dinamica: quella del dubbio sistematico, essendo l’università lo spazio, il luogo del confronto fra argomentazioni razionali, al quale, chiunque ha diritto di accedere. L’idea di ragione, l’idea di un Logos universale è il fondamento di questa infinita discussione che si chiama università. Come dimostra l’esistenza stessa dell’istituzione universitaria, in realtà il dubbio e il suo esercizio sistematico sono possibili soltanto sul terreno di convinzioni forti.

Quando al grande poeta e pensatore francese Paul Valéry, fu chiesto, che cosa significa Europa, chi è l’Europeo, egli rispose con tre parole semplici e insieme densissime di storia e di valori: Atene, Gerusalemme, Roma

“Queste, egli dice, mi sembrano le tre condizioni essenziali per definire un Veo Europeo i tutta la sua pienezza. Ovunque i nomi di Cesare, Gaio, Traiano e Virgilio, ovunque i nomi di Mosè e di san paolo, ovunque i nomi di Aristotele , Platone ed Euclide hanno avuto un significato e una autorità simultanea, lì c’è l’Europa. Ogni razza e ogni terra che sia stata successivamente romanizzata, cristianizzata e sottomessa, dal punto di vista del pensiero, alla disciplina dei Greci è assolutamente europea”18. Europei, per Valéry sono tutti quei popoli che nel corso della loro storia hanno subito tre tipi di influenza”

1.L’influenza di Roma: “Vale a dire la maestà delle istituzioni e delle leggi, l’apparato ela dignità della magistratura. Roma, dice Valéry, “è l’eterno modello della potenza stabile e organizzata”. Un potere stranamente imbevuto di spirito giuridico, di spirito militare, di spirito religioso, di spirito formalista, il quale ha prodotto “i benefici della tolleranza e della buona amministrazione”. Roma non ebbe paura di affidare la cittadinanza romana, il titolo e i privilegi del civis romanus a uomini di tutte le razze e di tutte le lingue. In questo modo, grazie a quella stessa Roma, gli dei cessano di essere legati ad una tribù, ad una località, ad una montagna, ad un tempio di una città, per divenire universali e in un certo senso comuni”19.

2.In seguito è venuto il cristianesimo. Che incide a tal punto sulla precedente coscienza da far emergere una morale soggettiva. La nuova religione, dice Valéry, esige l’esame di se stessi e in questo senso il Cristianesimo propone allo spirito “i problemi più sottili, più importanti e anche più fecondi. Il Cristianesimo attualizza pienamente l’eredità ebraica e biblica. Il senso della trascendenza. La tensione tra fede e ragione”20.

3.Ma non meno essenziale è una terza influenza, quella del pensiero greco. Dobbiamo al pensiero greco “la disciplina della mente e lo straordinario esempio di perfezione in tutti i campi. Dobbiamo ad essa un metodo nel pensare che tende a riferire ogni cosa all’uomo, all’uomo nella sua globalità: l’uomo, con il pensiero e la filosofia dei Greci, il sistema di riferimento rispetto al quale ogni cosa deve, alla fin fine, potersi applicare. Da questa disciplina doveva necessariamente nascere la scienza. L’Europa è certamente anche la creatrice della scienza. La geometria greca: definizioni, assiomi, lemmi, teoremi, corollari, porismi, problemi: “Era la macchina della mente resa visibile, l’architettura stessa dell’intelligenza interamente disegnata, il tempio innalzato dalla parola in onore dello spazio, ma un tempio che può innalzarsi all’infinito”21.

Mi piace ricordare, a mo’ di esempio e di sintesi di questo stile della mente, di questo atteggiamento dello spirito, il modo in cui procede, ad esempio, la Summa Teologica di San Tommaso d’Aquino. Come sapete, dopo l’ enunciazione chiare di una tesi a favore di una certa questione, Tommaso propone sempre un “Sed contra”.

Conclusione. Una identità certa per la civiltà del domani

Come sociologo della cultura, ho cercato di mostrare quella che può apparire come “la situazione critica della cultura europea contemporanea”.

Una cultura che per lungo tempo si è illusa di ignorare un aspetto caratteristico inscritto nell’eredità che ci viene da Atene, Gerusalemme, Roma. Come dice R. Spaemann, infatti, la natura dell’uomo e la sua umanità non si realizzano da “sole”, “per natura”, né spontaneamente. Gli uomini “devono guidare la propria vita”. Per essere uomini devono dare una forma alla loro vita. E questo può avvenire soltanto, come dice Spaemann, se “la vita ha un contenuto che la proietta al di là della mera autoconservazione e riproduzione della specie. Un contenuto che supera l’uomo”22.

Come ci insegna proprio il Calendario che abbiamo tra le mani e che resterà con noi per tutto l’anno che viene, l’uomo è l’essere capace di autotrascendenza. Egli ha bisogno di qualcosa per cui valga la pena vivere. Il Cor curvatum in se ipsum, si cui parla Sant’Agostino, il cuore che resta chiuso in sé stesso “non è più, in senso stretto, un cuore umano”23. Allo stesso tempo l’uomo può uscire dalla ristrettezza del proprio egoismo soltanto se inserito all’interno di una comunità vivente. “Ciò che noi chiamiamo cultura è l’impronta della vita di una comunità attraverso quei contenuti che strutturano la vita e le offrono un senso”24.

Il compito che gli uomini di cultura e gli educatori hanno oggi è proprio questo: quello di superare ogni liberalismo della neutralità, l’ideale cioè di una società liberale nella quale tutte le pretese di assolutezza di tipo cognitivo, etico e religioso sono scomparse e nella quale l’uomo non deve più prendere nulla seriamente. A questo liberalismo che sfocia in un nichilismo banale e “oicofobico”, a partire dal quale tremano i fondamenti stessi della nostra civiltà europea, e a partire dal quale sembra realizzarsi una vera e propria “abolizione dell’uomo” (C.S. Lewis), occorre con forza contrapporre un liberalismo dei valori, e cioè l’idea che l’unico fondamento possibile e vero della libertà sia e rimanga la verità.

Come ci ricorda R. Scruton, non ha senso descrivere il nostro mondo senza identificare, a livello più profondo, le cose che apprezziamo in esso e quelle che minacciano ciò che stimiamo25.

In questo senso, il compito che la cultura oggi ci pone innanzi, proprio per risolvere quel dilemma è quello di definire “chi” noi siamo.

Come abbiamo visto, occorre di nuovo riflettere sui fondamenti culturali dell’Europa. E cioè, come dice Scruton:

“Una civiltà che deve la sua grandezza alle forme di ordine che hanno avuto origine nel continente europeo, come risultato di una sintesi che non ha nessun parallelo nella storia umana. L’ordine dell’Europa deriva dal cristianesimo e dal suo antenato, l’ebraismo, dalla città-Stato greca con la sua concezione di comunità autogovernante, e dalla legge romana con il suo ideale di giurisdizione universale e laica, nella quale le leggi fatte dagli uomini avrebbero avuto la precedenza sui presunti comandamenti di divinità settarie. Queste tre influenze hanno portato, nel tempo, alla concezione dello Stato-nazione come comunità autogovernante che avrebbe integrato la legge laica con gli usi religiosi, senza permettere che l’una annientasse gli altri”26.

Una sintesi perfetta di questo umanesimo aperto alla trascendenza, ci è stata lasciata dal grande scrittore inglese G.K. Chesterton, il quale una volta ha detto:

“Un uomo senza un certo sogno di perfezione fa più paura di un uomo senza naso”.

Gli esempi a cui ci rinvia il CalendEsercito 2016 hanno la forza di mostrarci come nella storia della nostra Patria non sono mancati uomini e donne che questo “sogno di perfezione” l’hanno saputo vivere, incarnare, testimoniare splendidamente. Con umiltà, riconoscenza, gratitudine, oggi ci inchiniamo davanti al loro Sacrificio. Un sogno di perfezione che sia chiamava (e che per noi oggi ancora si chiama): Patria.

Vi confesso, con un forte senso di commozione, che ho una particolarissima ragione di affetto, di devozione, di ammirazione per questo Calendario: per il riferimento al Maggiore Giuseppe La Rosa, Medaglia d’oro al valor militare, che ha frequentato il 183° Corso dell’Accademia militare di Modena e che nell’anno accademico 2002-2003, inquadrato nell’8 c.p. II pl., è stato mio allievo nel Corso di Sociologia dei Processi culturali. Alla Sua memoria dedico queste riflessioni. Grazie.

Bibliografia essenziale di riferimento

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R. Scruton, L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica, Vita e Pensiero, 2004

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A. MacIntyre, “Il patriottismo è una virtù?”, in: Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, pp. 55-76

1 Cfr. R. Scruton, Il bisogno di nazione, Edizione Le Lettere, Firenze, 2012, in particolare il cap. “Oicofobia”, pp. 69 e sgg; A. Finkielkraut, L’identità infelice, Guanda, Parma, 2015

2 Cfr. A. MacIntyre, “Il patriottismo è una virtù?”, in: AA.VV., Comunitarismo e liberalismo, a cura di A. Ferrara, Editori Riuniti, 2° Ed., 2000, Roma, pp. 55

3 Ibidem

4 Cfr. L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, (1968), tr.it. Giuffrè, 1973

5 Ibidem, p. 14

6 Su questo tema, cfr. R. Spaemann, Rousseau, cittadino senza patria. Dalla “polis” alla natura, Ares, 2009, tr.it. e cura di Leonardo Allodi. Sul pervertimento e la banalizzazione della “cultura dell’autenticità”, si veda l’opera ormai classica di C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, 1994

7 Cfr. M. Eliade, “Mondo. Città. Casa”, in: Occultismo, stregoneria e mode culturali. Saggi di religioni comparate, Sansoni editore, 1983, pp. 21-34

8 Ibidem, pp. 21-22

9 Cfr. J. G. March, J. P. Olsen, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica. Il Mulino, 1992; R. Cartocci, La banalità dei valori: la riflessione di Tullio-Altan e lo studio della cultura politica, «METODI E RICERCHE», 2005, XXIV, pp. 3 – 23.

10 Riportato in R. Cartocci, op. cit.

11Ibidem

12 M. Eliade, op. cit. , pp. 21 e sgg.

13 Ibidem

14 Cfr. H. Sedlmayr, Perdita del centro, Rusconi, Milano, p.15.

15 Cfr. M. Eliade, op. cit., p. 34

16 Cfr. S. Belardinelli, La comunità liberale, Studium

17 Cfr. su questo lo straordinario saggio di R. Spaemann, “Universalismo o eurocentrismo?”, in: Il Nuovo Areopago, anno 6, numero 3, (23), autummo 1987, pp. 5-13. Testo pronunciato da R. Spaemann agli incontri di Castelgandolfo promossi da Papa Giovanni Paolo II.

18 Cfr. P. Valéry, “La crisi del pensiero”, in: Opere scelte, Mondadori, 2014, pp. 1426 e sgg.

19 Ibidem

20 Ibidem

21 Ibidem

22 Cfr. R. Spaemann, “La cultura europea e il nichilismo banale”, in: Studi Cattolici, , gennaio 2013, pp. 4-7

23 Ibidem

24 Ibidem

25 Cfr. R. Scruton, “Idee circa il mondo in cui vogliamo vivere”, in: Vita e Pensiero, 5, 2011, pp. 8-11

26 R. Scruton, La Tradizione e il Sacro, Vita e Pensiero, 2015, p. 74

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