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Pubblicato il 07/07/2020

CORRIERE DELLA SERA: PAOLO MIELI INTERVIENE SULLA PRIMA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN 1-3 LUGLIO 1942

Corriere della Sera, 7 luglio 2020

L’altra faccia di El Alamein

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Gli italiani hanno sempre raccontato a sé stessi, dopo aver perso la guerra, che ci fu una battaglia, quella di El Alamein (1942) contro gli inglesi, in cui «mancò la fortuna, non il valore» (come recita il testo del cippo marmoreo che nel 1955 fu collocato nel sacrario militare della località egiziana). In effetti i nostri connazionali, tra i quali si distinse il maggiore Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo (che conosceva il terreno per averlo già perlustrato nove anni prima), si batterono con onore, come venne loro riconosciuto anche da tutti, compresi gli inglesi.

Però, nota Andrea Santangelo – in La battaglia di El Alamein (il Mulino) – di libri specifici sull’argomento nel nostro Paese non ne sono stati scritti o tradotti moltissimi. A parte una «nutrita memorialistica dei reduci», di «scientifico» c’è assai poco. Si possono citare, nell’arco di qualche decennio, La battaglia di El Alamein (Res Gestae) di Michael Carver, I generali del deserto. I signori della guerra d’Africa (Bur) di Correlli D. Barnett, Le volpi del deserto (Bur) di Paul Carell, Rommel in Africa settentrionale. Settembre 1940-novembre 1942 (Mursia) di Alessandro Massignani e Jack Greene. Più i tre volumi Le operazioni in Africa settentrionale di Mario Montanari, pubblicati dall’Ufficio storico dello stato maggiore dell’Esercito, e pochissimi altri. Forse, ipotizza Santangelo, questa relativa scarsità di studi è riconducibile ad «un certo disinteresse della ricerca accademica sulla storia delle battaglie», che si accompagna a un «inveterato sospetto che la storia militare sia un luogo oscuro e tristo, popolato solo da guerrafondai».

Eppure Winston Churchill e Bernard Montgomery hanno sempre sostenuto che la battaglia di El Alamein (23 ottobre – 4 novembre 1942) sia stata decisiva nel far cambiare le sorti della guerra, così come lo furono le pressoché coeve battaglie di Midway (4-7 giugno 1942) e di Stalingrado (17 luglio 1942- 2 febbraio 1943). Peccato che in questo riconoscimento avessero dimenticato (o rimosso) la «prima» battaglia di El Alamein, quella condotta da Claude Auchinleck, altrettanto decisiva di quella di ottobre in cui al comando degli inglesi ci fu l’«osannato futuro primo visconte Montgomery di Alamein (tale fu il titolo nobiliare concesso nel 1946 al maresciallo in onore della sua vittoria nel deserto)». Perché questa rimozione dei fatti d’arme nordafricani di inizio luglio 1942?

In un articolo per il Defence Studies Department del King’s College di Londra, lo storico militare Niall Barr ha puntato l’indice contro le modalità con cui la storiografia e la memoria condivisa britannica hanno totalmente rimosso la prima battaglia di El Alamein. Trascurando il fatto che quel combattimento, tra il 1° e il 3 luglio del 1942, fu decisivo nell’impedire all’esercito di Erwin Rommel la conquista dell’Egitto. Barr se la prendeva con le parole del generale Charles Richardson («non è mai esistita» una battaglia chiamata «la prima di El Alamein») sostenendo che tale occultamento dei meriti di Auchinleck era, ad ogni evidenza, riconducibile a Montgomery. Il quale pretendeva fosse ricordato soltanto ciò che andava a gloria sua e, al massimo, di Churchill.
Il primo ministro britannico aveva avuto l’intuizione di attaccare in Nord Africa già nel 1940, nonostante i suoi gli facessero osservare che in Libia c’erano 182 mila militari italiani e 24.500 libici, mentre in Egitto le forze britanniche non arrivavano a 60 mila uomini. Gli italiani si sentivano padroni del campo, tant’è che esisteva fin dal 1938 un piano d’attacco, predisposto dal governatore Italo Balbo, per giungere ad Alessandria «di sorpresa», travolgendo gli inglesi. Il piano, definito da Santangelo «quantomeno utopico», aveva come punto debole la scarsa conoscenza del terreno su cui si sarebbero dovute svolgere le operazioni militari.
Quando Balbo morì – il suo aereo fu abbattuto per errore dalla nostra contraerea nel giugno del 1940, pochi giorni dopo l’entrata dell’Italia in guerra – il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che lo sostituì, accantonò il piano e, a dispetto delle insistenze di Mussolini che premeva perché si muovesse in fretta e desse vita in Africa ad una «guerra parallela» a quella europea, si mise a studiare altre ipotesi. Prese tempo anche il corrispettivo di Graziani sul fronte inglese, il generale Archibald Wavell, grande studioso di storia militare, poco apprezzato da Churchill che di lui non aveva una grande opinione (lo definì «niente più di un buon colonnello»).

Wavell e Graziani, scrive Santangelo, si cimentarono in una gara di «procrastinazione dell’offensiva», vinta dall’inglese dal momento che Graziani «per evitare di essere silurato dovette necessariamente partire all’attacco». Il 18 agosto 1940 Mussolini ordinò a Graziani di agire, scrivendogli che lui stesso si assumeva la «piena responsabilità personale» della decisione. Graziani attese ancora una ventina di giorni e mandò il generale Mario Berti all’attacco di Sidi el Barrani. L’azione militare, a dispetto della nostra superiorità numerica, fu caotica. A tratti comica. Così come la successiva in direzione di Marsa Matruh.

Il 28 ottobre Mussolini decise di attaccare la Grecia e da quel momento prestò minori attenzioni al teatro libico. Sicché gli italiani per qualche tempo poterono starsene «tranquilli nelle loro buche nel deserto». Fino al 9 dicembre, quando furono sorpresi nel sonno dai tiri dell’artiglieria nemica. Subito i nostri connazionali «andarono nel panico» e con l’offensiva britannica guidata dal generale Richard O’Connor caddero le roccaforti italiane della Cirenaica: Bardia, Tobruk e Derna. Fu, secondo Santangelo, una dimostrazione dell’«insipienza dei vertici militari italiani». I quali persero 120 mila uomini tra i quali ventidue generali, un ammiraglio e l’intero bordello da campo per gli ufficiali. Subito Mussolini sostituì Graziani con il generale Italo Gariboldi e chiese ai tedeschi di mandare in nostro soccorso l’Afrika Korps sotto il comando di Erwin Rommel. Così finì la «guerra parallela»: da quel momento gli italiani furono anche in Africa agli ordini di Hitler.

Nel giro di qualche settimana Rommel fermò l’avanzata nemica, entrò a Bengasi (aprile 1941), riuscì persino a catturare i generali O’Connor e Neame. Anche i bersaglieri italiani agli ordini del colonnello Ugo Montemurro fecero prigionieri due generali nella presa di El Mechili. Stavolta toccò a Wavell di essere sostituito dall’assai capace Claude Auchinleck, richiamato apposta dall’India (luglio 1941). Churchill non provava nemmeno a dissimulare la collera provocatagli da Rommel. Mussolini riprese animo e annunciò l’intenzione di sfilare in parata sotto le piramidi. Rommel lo sconsigliò e iniziò a giocare una metaforica partita a scacchi con Auchinleck. A dire il vero, fu quest’ultimo a prendere l’iniziativa. E la partita raggiunse il culmine nell’estate del 1942 con la prima battaglia di El Alamein. Battaglia che si mise subito male per le truppe dell’Asse: «Non conoscevano la zona», scrive Santangelo, «e il movimento notturno in area desertica era quanto di più complicato potesse esserci per un esercito». Per di più il 70% delle artiglierie italiane era composto da modelli che risalivano alla Prima guerra mondiale. Stesso discorso valeva per fucili e moschetti. Molto apprezzata fu invece la pistola semiautomatica Beretta M34: ai tedeschi piaceva che non si inceppasse mai e gli Alleati la consideravano un’«ambita preda bellica».

Il combattimento finì per così dire in parità. Ma la parità – lo si sarebbe capito in seguito – era tutta a vantaggio degli inglesi. Così il generale Cecil Ernest Lucas Phillips in El Alamein (Garzanti) provò a spiegare quanto fu terribile quello scontro: «Alla fine del mese entrambe le parti erano esauste, dopo essersi ridotte vicendevolmente a un punto morto… Le distese sabbiose e le alture rocciose erano disseminate di veicoli fracassati, neri grovigli di rottami irriconoscibili, armi infrante, lembi di vestiti e frammenti di materiale, relitti di carri armati con le pareti interne incrostate di carne umana o le torrette aperte da cui sporgevano i torsi carbonizzati degli equipaggi». Churchill però non capisce che non si tratta di una sconfitta: il 27 luglio sostituisce Auchinleck con William Gott e poi con Bernard Montgomery.

Ed eccoci al momento della verità con i due generali uno di fronte all’altro: Rommel, nato nel 1891, aveva dato prova di sé nel 1917 a Caporetto, allorché alla testa di un battaglione di montagna del Württemberg si era infilato nello schieramento italiano facendolo collassare (con ciò meritando la più alta onorificenza militare tedesca); Montgomery, nato quattro anni prima di Rommel, nel 1887, venne immediatamente percepito dai suoi come molto autorevole. «Pochi lo conoscevano», racconta Lucas Phillips, «si sapeva soltanto che quando faceva lezione o teneva una conferenza in Inghilterra venivano esposti cartelli con la scritta “Vietato fumare, vietato tossire”». In breve tempo, riferisce ancora Lucas Phillips, impresse nei soldati inglesi «un’assoluta certezza di vittoria» e trasformò «un assembramento di nuclei senza coesione» in un’«efficiente macchina da guerra».

Quando fu nominato comandante dell’Ottava armata, le sue prime parole furono: «È triste che un soldato con una grande storia alle spalle riesca a raggiungere le vette del comando e poi debba soffrire una tale disfatta da rovinargli per sempre la carriera». Il generale Hastings Ismay, che era vicino a lui, lo esortò a star su con il morale, ma lui gli replicò: «Io mi riferivo a Rommel!». Il quale Rommel non fu da meno quanto a certezza della vittoria. Convocò Caccia Dominioni e gli disse: «Se sono ben informato, lei è ingegnere e conosce bene il Nilo per avervi passato molti anni. Quindi, quando arriveremo al Nilo, lei si occuperà del forzamento e prenderà sin d’ora accordi con il mio comandante del genio, colonnello Hecker». Sin d’ora. Ma le cose andarono diversamente da quel che Rommel aveva previsto.


Furono undici giorni di combattimenti furiosi che sfiancarono entrambi gli schieramenti. Nel pomeriggio del 2 novembre 1942 Rommel decise per una parziale ritirata. Era una scelta saggia. Inviò telegrammi a Roma e a Berlino «per informare i rispettivi governi delle criticità della situazione». Mandò inoltre un emissario personale (il suo ufficiale d’ordinanza, il capitano Ingmar Berndt) al quartier generale di Hitler perché sperava che, essendo Berndt un conoscente personale del Führer, venisse ascoltato più di quanto lo sarebbe stato il capo di stato maggiore. Ma, ironizza Santangelo, Montgomery trovò in Hitler e Mussolini due provvidenziali «alleati». Hitler ordinò a Rommel di «continuare a resistere», di «non cedere di un sol passo»; non avrebbe avuto nessuna alternativa: o la vittoria o la morte.

Dello stesso tenore furono le parole, ancora più ingenue, di Mussolini. Rommel fu così costretto a dare un contrordine ai suoi, che già si accingevano a ripiegare per riprendere fiato. Nessuno aveva però la forza di tornare indietro. In più il contrordine di Rommel affossò definitivamente il morale delle truppe. In particolare quelle italiane. Montgomery capì quel che era successo e passò al contrattacco. Il primo ad essere travolto fu il XXI corpo italiano. Poi venne il resto. La notizia della sconfitta di El Alamein si diffuse in un lampo nelle retrovie italo-tedesche «creando panico e isteria». Montgomery poté annunciare una «vittoria completa e assoluta». Il suo superiore, Harold Alexander, telegrafò a Churchill di «far suonare le campane a distesa». Hitler passò a concentrarsi su Stalingrado, dove i suoi gli annunciavano un’imminente vittoria. Anche qui ingannandolo. Mussolini capì che doveva rinunciare per sempre alla parata sotto le piramidi.

Quanto a Caccia Dominioni, singolare figura di militare, ingegnere, intellettuale poliglotta, fu decorato per l’impresa di El Alamein con una medaglia d’argento. Poi, tornato in Italia, prese parte alla Resistenza, fu catturato due volte, una dai repubblichini, la seconda dai tedeschi. Riuscì a fuggire e fu nominato capo di stato maggiore del Corpo lombardo dei volontari per la libertà conquistando, come riconoscimento, una medaglia di bronzo. Finita la guerra, dedicò molti anni al recupero delle salme dei caduti dell’autunno 1942 e all’edificazione del Sacrario italiano, in cui avrebbero trovato sepoltura quasi cinquemila salme. Stavolta ottenne dall’Italia repubblicana una medaglia d’oro. Sull’impresa nordafricana scrisse poi un libro, Alamein 1933-1962 (Longanesi), non fazioso e pregevole anche sotto il profilo letterario.

PAOLO MIELI

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