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Pubblicato il 18/12/2021

GENERALE GRAZIANO: COSA INTENDIAMO PER DIFESA EUROPEA

di Claudio Graziano
generale di corpo d’armata dell’Esercito Italiano , è l’ attuale presidente del Comitato militare dell’Unione europea.
cortesia: “LUISS SCHOOL OF GOVERNMENT”


Nelle conclusioni ufficiali del Consiglio europeo di giovedì scorso, i 27 leader dell’Unione Europea hanno meritoriamente richiamato la necessità di assumere maggiori responsabilità collettive in materia di Difesa europea.
Siamo dunque di fronte alla chiara dimostrazione della volontà dei Capi di Stato e di Governo di voler proseguire lungo un cammino di rafforzamento del ruolo del nostro continente nel campo della sicurezza e della difesa. L’Unione, infatti, a maggior ragione dopo gli eventi dello scorso agosto in Afghanistan, deve essere in grado di poter difendere i propri interessi e i propri valori, deve poter fronteggiare le minacce e le sfide alla sicurezza dei suoi cittadini, continuando – nel contempo – a lavorare per la stabilizzazione delle aree di crisi.


Il dibattito sulla Difesa europea ha subito, dicevamo, un’accelerazione negli ultimi mesi. Eppure le origini dell’architettura di sicurezza e difesa dell’Europa possono essere rintracciate già nel Dopoguerra, quando un gruppo di Paesi del continente lanciò le prime iniziative per attribuire la gestione di alcune risorse strategiche a un’autorità sovranazionale, discutendo anche la possibilità di armonizzare certe scelte politiche di fronte a sfide comuni, in ogni campo, incluse appunto la sicurezza e la difesa. Essendomi arruolato nell’Esercito italiano nel 1972, posso dire di aver vissuto in prima persona e per ormai mezzo secolo l’evoluzione della difesa dell’Ue.


I primi passi della Difesa comune

Un passaggio fondamentale è stato quello del 1993, quando – all’indomani della caduta del Muro di Berlino e della rivoluzione geopolitica che ne è seguita – tutta una serie di riflessioni ha condotto alla creazione della Politica Estera e di Sicurezza comune (PESC). Tuttavia è soltanto nella seconda metà degli anni Novanta, dopo le guerre nei Balcani, che l’Unione europea ha colto davvero l’opportunità di fornire un rinnovato impeto alla PESC attraverso iniziative concrete. Allora prese il via, lo ricordo bene, una serie di riunioni dei Capi di Governo e dei ministri dell’Unione che si impegnarono a definire le capacità militari e civili necessarie per rispettare la Dichiarazione di Petersberg, cioè un insieme di obiettivi umanitari, di soccorso e di peacekeeping, inclusa la possibilità di impiegare forze combattenti nella gestione di crisi future. Fin da quel momento, vorrei sottolinearlo, il livello di ambizione non era soltanto teorico, ma conteneva una formulazione concreta della forza che avremmo potuto utilizzare. Nel 2003, per esempio, si parlò della possibilità di “dispiegare entro 60 giorni, e sostenere almeno per un anno, una forza pari fino a 60.000 persone, in grado di attuare tutti i compiti delineati con la Dichiarazione di Petersberg”.


Un secondo passaggio chiave si può collocare nel 2009, quando il Trattato di Lisbona (noto anche come Trattato dell’Unione europea) traccia il quadro generale della Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) odierna, ne chiarisce gli aspetti istituzionali e rafforza il ruolo del Parlamento europeo in relazione a tale politica. Allora ero comandante della missione militare UNIFIL in Libano, per la precisione Comandante della Forza militare dei Caschi Blu e Capo Missione dell’ONU per far progredire il dialogo tra rappresentanti libanesi e israeliani, una missione lanciata sotto gli auspici e con il pieno sostegno operativo dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri.


Dalla strategia globale (ndr) Global Strategy alla Bussola Strategica

Veniamo rapidamente all’oggi. Nel 2016, quando l’Unione Europea stava lanciando la sua nuova Strategia Globale (Global Strategy), io ricoprivo l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Difesa in Italia. In quel frangente, l’Unione ha accresciuto ulteriormente il livello della propria ambizione per diventare un “Global Security Provider”, dunque un fornitore del bene pubblico “sicurezza”, così da realizzare fino in fondo il nesso sempre più evidente fra sicurezza esterna e interna all’Unione.

Inoltre la leadership dell’Ue ha finalmente deciso di prendere sul serio l’assenza di alternative credibili al processo di integrazione in materia di difesa, prefigurando un’Europa capace anche di agire da sola, perseguendo la cosiddetta “autonomia strategica”. Su questo punto è bene fare chiarezza. L’autonomia strategica non è autonomia da qualcuno, dalla NATO – per esempio – o peggio ancora dal mondo, perché ciò sconfinerebbe nel velleitarismo e nell’isolazionismo. L’autonomia è da intendersi come capacità di agire anche da soli se necessario, quando i partner tergiversano. Un atteggiamento che deve valere soprattutto nelle aree di nostro interesse immediato, come il Mar Mediterraneo, i Balcani e il Vicino oriente, considerata pure la rimodulazione delle priorità geopolitiche in corso negli Stati Uniti.


Attualmente, infine, l’Unione europea sta lavorando sulla propria “Bussola strategica” , un documento politico di alto livello che dovrebbe essere approvato nel marzo 2022 e che ha l’obiettivo di infondere nuova coerenza a tutte le attività di sicurezza e difesa nel breve-medio termine, cioè nei prossimi 5-10 anni. È utile qui riportare le parole del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, pronunciate in Parlamento in vista del Consiglio europeo dello scorso 16 dicembre: “La Bussola può avvicinarci a un’autentica difesa europea e favorire la costruzione di una cultura strategica comune. Vogliamo migliorare le capacità di gestione di crisi legate a minacce ibride, cibernetiche e alla disinformazione. Proteggere al meglio gli spazi geo-strategici oggetto di contestazioni – dai mari allo spazio. E migliorare le capacità di risposta alle conseguenze dei cambiamenti climatici, dei disastri naturali, delle emergenze. Inoltre, servirà a pianificare meglio gli investimenti per sviluppare le nostre capacità di difesa, incluse le tecnologie emergenti. E farlo in modo coordinato, tramite la cooperazione e il supporto tra partner”.


La Bussola strategica consta di quattro aree di interesse: Agire, Rendere sicuro, Investire e Collaborare (Act, Secure, Invest and Partner). Il primo capitolo, “Agire”, riguarda il raggiungimento della capacità di intervenire, in particolare di sviluppare una capacità di intervento rapido dell’Ue per proiettare proprie forze in aree di crisi in tempi brevissimi. La seconda area, “Rendere sicuro”, riguarda la resilienza. “Collaborare” vuol dire rafforzare la nostra cooperazione con gli attori a noi più affini. “Investire” vuol dire puntare sullo sviluppo capacitivo.


Su quest’ultimo fronte, quello dello sviluppo capacitivo, l’Unione Europea si muove in modo ancora troppo frammentario e dunque dovrebbe mostrare maggiore coerenza, una visione comune e un impegno congiunto per lasciarsi alle spalle inutile duplicazioni. Gli Stati membri dell’Ue devono iniziare sfruttando appieno i vantaggi legati a iniziative e programmi comuni già avviati. Infatti, anche per fare fronte alla limitatezza delle risorse economiche a disposizione, negli ultimi 4-5 anni l’Unione Europea ha compiuto enormi progressi accordandosi su una serie di iniziative decisamente innovative in tema di sicurezza e difesa.


Abbiamo iniziato con il cosiddetto “Headline Goal Process” che ha tradotto il livello di ambizione politica dell’Ue in termini prettamente militari. Dopodiché abbiamo lanciato la PESCO, Cooperazione Strutturata Permanente (Permanent Structured Cooperation), un meccanismo cardine per creare una cooperazione maggiormente integrata tra Stati membri nel dominio della difesa. Tuttavia, visto che l’Unione Europea è la sola organizzazione che non soltanto crea iniziative comuni, ma può anche sostenerle finanziariamente, abbiamo istituito parallelamente il Fondo Europeo di Difesa (EDF) che ha attirato molta attenzione per il suo grande potenziale per il settore. In poche parole, il Fondo è un meccanismo concepito per fornire i mezzi e il sostegno finanziario nel campo della ricerca e dello sviluppo, allo stesso tempo rendendo ogni forma di cooperazione più attraente per gli Stati coinvolti, evitando in questo modo lo spreco di risorse e la duplicazione degli sforzi pure dal punto di vista industriale. Il Fondo Europeo di Difesa dovrebbe aiutare l’industria della difesa dell’Unione europea a mantenere all’interno dei confini del nostro continente il know-how e alcune capacità critiche in termini di ricerca e sviluppo che sono essenziali per perseguire concretamente l’autonomia strategica. Viviamo in una fase di transizione tra vecchi e nuovi paradigmi. Abbiamo bisogno di tempo per studiare, capire, adattarci e colmare eventuali gap. Se non rimaniamo al passo di questa competizione, rischiamo di rimanere stritolati nella competizione tra potenze che è – sempre più – una competizione per la superiorità tecnologica. Ciò è ancora più vero in una fase di riequilibrio geopolitico. Stiamo infatti assistendo a una nuova competizione, una rincorsa tecnologica – più precisamente: una rincorsa nell’Intelligenza Artificiale applicata anche agli armamenti – che ci accompagnerà nel prossimo futuro, nonostante oggi non siamo ancora in grado di immaginare il mondo di domani.


A questo proposito, è fondamentale osservare che tutti i risultati che raggiungeremo attraverso le iniziative comuni europee di difesa genereranno vantaggi anche per la NATO, visto che ciò che è buono per l’Ue è buono per la NATO e che un’Europa più forte rende più forte anche l’Alleanza Atlantica. Nel frattempo i risultati raggiunti avranno un impatto immediato per tutte le nostre operazioni e missioni, in cui donne e uomini in uniforme stanno già servendo quotidianamente, dai Balcani all’Africa, garantendo massima visibilità ed efficacia alla politica estera dell’Ue.


L’attuale proiezione esterna dell’Ue

Attualmente l’Ue – lo ricordo – è impegnata in tre operazioni e in quattro missioni di addestramento, dai Balcani al Golfo di Aden, passando per Mar Mediterraneo e fino al Sahel.

Una breve panoramica di tali impegni non può che partire dall’operazione più antica, Althea, in Bosnia-Erzegovina, che ha l’obiettivo di contribuire a creare un ambiente sicuro, fornendo assistenza al capacity-building e addestramento alle Forze Armate locali, a sostegno della strategia complessiva dell’Ue per il Paese. Althea, vorrei sottolinearlo, è peraltro un modello di cooperazione tra Ue e NATO in termini di operazioni militari, nell’ambito dell’intesa “Berlin Plus”. Spostandoci verso Sud, abbiamo l’Operazione Irini, la più grande e importante operazione dell’Ue, cruciale per la credibilità stessa della nostra politica estera, visto che attraverso di essa gestiamo nel Mar Mediterraneo l’embargo di armi alla Libia. Quindi l’Operazione Atalanta nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, che ha raggiunto risultati operativi eccellenti negli ultimi dieci anni, proteggendo le navi del Programma alimentare mondiale (World Food Programme o WFP) e altre navi vulnerabili, contribuendo alla repressione della pirateria e offrendo una piattaforma vitale per stabilire una cooperazione con Stati terzi dell’area. Quanto alle missioni di addestramento, l’Ue è presente in Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia e da poco in Mozambico. Un elemento comune a tutte le attività ricordate finora è la componente di capacity building, per aiutare i Paesi terzi a tornare a camminare sulle proprie gambe, un ambito peculiare – che va oltre il classico impegno militare – in cui l’Ue si è ritagliata un proprio spazio autonomo grazie alla varietà degli strumenti messi in campo. Quanto detto finora assume particolare rilievo per il “fianco meridionale” dell’Italia e quindi dell’Europa, che si estende dalla Libia al Sahel, dove vediamo all’opera quello che da qualche tempo ho definito il “Triangolo dell’Instabilità”, composto da terrorismo internazionale, flussi crescenti di immigrazione irregolare e Stati falliti. Non c’è dubbio che negli ultimi due anni l’instabilità geopolitica si sia manifestata in molteplici forme e crisi, dalla Libia all’Iraq, dalla Bielorussia all’Afghanistan, e tutte queste circostanze hanno contribuito a peggiorare la situazione della sicurezza internazionale. Si tratta di un contesto in cui attori vecchi e nuovi appaiono in cerca di nuovi ruoli da giocare, facendo sorgere nuove incognite mentre perseguono le proprie strategie e tentano di riempire i vuoti lasciati da altri. Come se tutto ciò non bastasse, la pandemia da Covid-19 ha investito con violenza il pianeta, amplificando molti di questi pericoli già esistenti. Le istituzioni dell’Unione europea hanno tuttavia dalla loro parte una “scatola degli attrezzi” unica, poiché essa include strumenti politici, diplomatici, economici e militari allo stesso tempo. Personalmente sono convinto che le crisi contemporanee non possano essere gestite ricorrendo a uno solo di questi strumenti. Inoltre ritengo che se da una parte non esistano soluzioni puramente militari alle crisi, dall’altra parte nessuna crisi possa essere risolta senza disporre della forza militare, intesa come l’impiego dello strumento militare quale fattore abilitante che rende possibile il dialogo e facilita altre eventuali azioni magari nonviolente.

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