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Pubblicato il 22/04/2016

IL 28 APRILE 1945 FUCILATI 15 SOLDATI DELLA RSI INCOLPEVOLI. “NON NUTRITE ODIO VERSO CHI CI FUCILA”. IL CNL PROMETTE DI SALVARLI POI LI UCCIDE

LECCO – ALLE 17 del 28 aprile 1945, Bernardino Bernardini, tenente dell’esercito della Repubblica sociale catturato dai partigiani al termine della battaglia di Pescarenico di due giorni prima, scrive un ultimo lapidario messaggio poche ore prima di essere fucilato, insieme ad altri quindici commilitoni, nel campo sportivo di Lecco ai Cantarelli. «Carissima Maria Pia e Mila, catturato dai partigiani insieme ai Colleghi vado a morte tranquillo e certo del perdono di Dio», sono le sue testuali parole. «Non serbare rancore a nessuno ed inculca in Mila l’amor Patrio. Abbraccio tutti. Avverti i miei parenti. Bernardino». Su quel lapidario testamento si incentra «Le braccia del padre» (Stefanoni Editore, 114 pagine, 10 euro), il romanzo del lecchese Giuseppe Arnaboldi Riva che racconta quella tragica pagina della Liberazione in città da una prospettiva inedita. Riva, si può dire che il suo libro sia innanzitutto un inno alla riconciliazione che tarda ad arrivare anche dopo più di settant’anni? «Senza dubbio perché prima delle divise vengono gli uomini, sebbene contrapposti gli uni contro gli altri negli eventi tragici di quei giorni. E, non dimentichiamolo, che quegli accadimenti si svolgono durante il periodo pasquale». Un particolare che , se si può, aggiunge un carico di tragicità ulteriore a un libro in cui tra i protagonisti spiccano due religiosi. «Sono l’allora prevosto di Lecco, monsignor Giovanni Borsieri e don Luigi Brusa, rettore del santuario della beata Vergine della Vittoria.

Dopo avere protetto i partigiani, si preoccupano di salvare la vita ai militari della Repubblica sociale e poi quando si trovano superati dagli eventi, si preoccupano di accompagnare alla morte le loro anime: li abbracciano, ne raccolgono le confessioni prima della fucilazione. Come don Brusa che riceve dal tenente Bernardini quell’ultimo messaggio, che poi comunicherà in una lettera di tre mesi dopo indirizzata ai familiari». Una lettera dolce e struggente, esempio sublime di pietà cristiana non trova? «Don Brusa esprime le sue condoglianze ai familiari, li rincuora e ricorda “l’ultimo desiderio espresso dal loro Bernbardino di non nutrire odio verso alcuno”. Una prospettiva di riconciliazione, presupposto essenziale per una convivenza civile che a distanza di anni è ancora difficile». Si è mai chiesto il perché? «Credo che alla base ci sia proprio l’odio, che divide e sempre genera sofferenza. E quei sedici ufficiali e militari fucilati sono vittime della fazione giacobina della Resistenza che ha prevalso in quei giorni».
In che senso? «Dopo la battaglia di Pescarenico vennero fatti 160 prigionieri: un centinaio di uomini del Battaglione Perugia, di cui faceva parte Bernardini e una sessantina del Gruppo corazzato Leonessa, più legati all’ideologia fascista. Riccardo Cassin trattò la resa assicurando comunque l’incolumità per tutti e l’onore delle armi, tant’è che i soldati sfilarono scortati fino alle scuole di via Ghislanzoni con in mano le armi scariche» Invece cosa successe?
«Prevalsero i vertici del CNL che vollero legittimarsi come salvatori della patria e imporre un’egemonia politica, trasformando in capri espiatori da esibire quei sedici corpi per vendicare l’uccisione di due partigiani. La stessa logica utilizzata dai nazisti».

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