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Pubblicato il 23/09/2015

ISIS STA VINCENDO. PRESTO PADRONA DEL MEDIO ORIENTE E NORDAFRICA

di Paolo Dionisi

E’ trascorso solo poco più di un anno da quando, l’11 giugno del 2014, Mosul, seconda città dell’Iraq, cadeva nelle mani dell’Esercito Islamico, segnando l’inizio di una nuova fase per il movimento sorto nel 2003 sulle ceneri del regime iracheno di Saddam Hussein. Due settimane dopo, il capo del movimento, l’ex prigioniero del carcere militare americano di Camp Bucca in Iraq, Abu Bakr al-Baghdadi, veniva proclamato califfo e la strategia dell’Isis passava da una connotazione territoriale a una dimensione globale. Cambiava anche il nome, da Stato Islamico dell’Iraq e della Siria a Stato Islamico tout court e il movimento si ergeva come nuovo punto di riferimento non solo dell’universo jihadista ma dell’intera comunità islamica.

Un anno dopo, lo Stato Islamico controlla un terzo dell’Iraq e della Siria e la coalizione internazionale di 60 paesi a guida statunitense non è riuscita a contenere i jihadisti. Il Califfato è più potente di un anno fa e ha un patrimonio sufficiente per durare nel tempo; nonostante la perdita della città di Kobane, riconquistata dopo una drammatica battaglia dai Peshmerga kurdi nel gennaio di quest’anno, le forze jihadiste controllano, tra Siria e Iraq, un territorio di 300 mila chilometri quadrati, dove vivono quasi 10 milioni di persone. I militanti dell’Esercito Islamico si sono estesi anche in Libia, dove controllano la città di Sirte e gli spazi limitrofi e hanno avanposti anche nel Sinai e nell’Africa nera, grazie ai movimenti affratellati di Ansar Beit al-Maqdis e di Boko Haram.

La bandiera nera dell’Esercito Islamico è diventata un “marchio” popolare in diverse regioni del mondo, in grado di effettuare, o rivendicare, attacchi terroristici su più fronti, nel cuore dell’Europa, dalla Francia ai Paesi Bassi, al Belgio, nello Yemen, in Arabia Saudita e perfino nella lontana Australia e negli Stati Uniti. Qual è il successo dell’organizzazione jihadista? Da una parte, lo Stato Islamico è diventato non solo la più potente organizzazione jihadista nel mondo ma anche un attore globale, in grado di dettare la sua agenda politica e influenzare i media; dall’altra, i suoi avversari, locali –in Siria, Iraq, Libia – e internazionali –la coalizione a guida statunitense – hanno dimostrato una debolezza strategica disarmante.

Alcuni di questi paesi manterrebbero perfino un atteggiamento tiepido contro l’Isis, nell’interesse a non vederlo scomparire nel breve termine per tornaconti politici; è il caso del regime siriano di Bachar El Assad che sfrutterebbe l’attenzione internazionale sul Califfato, mai effettivamente attaccato con durezza dai suoi soldati, per sbarazzarsi invece delle altre forze ribelli. E la Turchia di Erdogan, che chiude un occhio sul traffico di merci con il Califfato, per attaccare invece le forze indipendentiste curde nella zona di confine. E anche il caso di Iran e Arabia Saudita, che, per ragioni diametralmente opposte, hanno interesse che il Califfato non venga sconfitto troppo in fretta, anche se si tratta di una minaccia diretta e grave per entrambi.

Fin dalla sua istituzione, l’Esercito islamico ha attirato decine di migliaia di giovani, soprattutto dai paesi del Golfo, dal Nord Africa e dall’Europa, ma anche dagli Stati Uniti, dalla Cina, dall’Australia e dalla Russia. Questo fenomeno si deve in particolare alla capacità del califfato di costruire un universo misto di suggestioni ideologiche di matrice coranica con fantasie orientaliste, esotiche e di scenari illusionisti holliwodiani. Una propaganda che i responsabili del Califfato controllano perfettamente attraverso i social network ma anche con i propri canali multi-mediatici come Al-Furqan o al-Hayat. I registi della propaganda jihadista utilizzano contemporaneamente l’irrazionale – come la paura, il potere, il sacrificio, la purezza e l’ideale coranico – con il razionale – lo stipendio, la posizione, il matrimonio, l’alloggio-, facendo facile preda di menti spesso instabili o troppo deboli.

Dove ha potuto, l’Esercito Islamico ha fatto leva anche sulla componente territoriale, arringando le masse sunnite che fino all’arrivo dei militanti dell’Isis vivevano sotto il giogo della componente sciita. I combattenti islamici sono stati molto abili a sfruttare le rivalità storiche tra sciiti e sunniti, acuitesi negli ultimi anni; in molti villaggi, a maggioranza sunnita, della Siria e dell’Iraq le forze del Califfato sono state accolte dalle popolazioni locali come liberatori. Il Califfato è sempre più uno Stato ben strutturato, con la capitale politica a Raqqa in Siria e quella economica a Mosul in Iraq; è stato insediato un governo, con ministri responsabili dei vari settori, una polizia, organizzata ed equipaggiata con uniformi e mezzi, l’amministrazione pubblica, una valuta – il dinaro d’oro, con la shahada, simbolo della fede islamica, sulle due facce e con la frase in arabo “Non c’è altro dio che Allah. Maometto è il suo profeta” – un sistema giudiziario fondato sul rigoroso rispetto della Sharia islamica, un sistema sanitario pubblico e un esercito jihadista.

Vengono raccolte le tasse e il bilancio pubblico può contare su altre risorse provenienti dalla produzione agricola, dalla vendita sul mercato nero degli idrocarburi e sul ricco mercato illegale occidentale dell’arte dei reperti archeologici saccheggiati da siti millenari, dai proventi dei sequestri di facoltosi commercianti locali, e i 500 milioni di dollari prelevati dalle casseforti della filiale di Mosul della Banca nazionale irachena. Il Califfato controlla la maggior parte del valico di frontiera tra l’Iraq e la Siria, con tutti i traffici illegali che vi transitano, rendendo questa vasta distesa di deserto tra la provincia di Anbar e quella di Raqqa una sorta di Sunnistan indipendente. I guerriglieri jihadisti si sono inoltre impossessati di importanti depositi di armi americane catturate alle divisioni dell’esercito regolare in Iraq e di armamenti ed equipaggiamenti russi abbandonati dai soldati di Assad in Siria.

Per fermare lo Stato Islamico, i 60 paesi della coalizione internazionale a guida americana hanno fatto fino ad ora troppo poco: la strategia basata su bombardamenti aerei e a terra sulla formazione, la consulenza e l’equipaggiamento delle forze regolari irachene è stata poco efficace. Dai rapporti del Pentagono, che sembra siano stati alterati dai generali per compiacere la Casa Bianca, risulta che il 75 per cento delle missioni aeree dei velivoli della coalizione internazionale su obiettivi Isis in Iraq siano state concluse senza sganciare le bombe. Gli esperti hanno raccomandato un maggiore coinvolgimento militare della coalizione e la necessità di inviare forze speciali con compiti operativi sul terreno accanto alle forze irachene. Il presidente francese Hollande, nei giorni scorsi, ha ordinato bombardamenti mirati anche in Siria; il Capo di Stato Maggiore dell’aviazione,Mercier, ha dato istruzione ai piloti francesi di colpire l’Esercito Islamico nella Siria orientale.

L’intensificarsi delle operazioni militari della coalizione solleva però la riluttanza di diversi leader politici e militari che temono che un numero crescente di vittime civili nelle zone del Califfato possa rafforzare la propaganda anti-occidentale jihadista e determini un ancor maggior esodo verso l’Europa di quelle popolazioni. Anche il presidente Obama ha sottolineato più volte che la guerra contro l’Isis deve essere vinta dalle forze locali, non dagli americani, che non possono sostituirsi agli iracheni o prendere il posto dei partner arabi per garantire la loro regione. Negli Stati Uniti si è ormai convinti che la guerra contro il Califfato è destinata a durare, ben oltre le elezioni presidenziali del 2016. Intanto l’Esercito Islamico continuerà a beneficiare dal caos siriano e delle tensioni interne in Iraq e milioni di disperati continueranno a scappare da quelle zone in direzione dell’Europa.

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