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Pubblicato il 04/11/2016

RASSEGNA STAMPA: IL TIRRENO PARLA DEI PARACADUTISTI A FIRENZE NEL FANGO DEL 1966

Il Tirreno ed. PISA- sezione: PISA data: 4/11/2016 – pag: 20
I ricordi dei militari che parteciparono ai soccorsi durante il disastro: «Proteggemmo Pisa con i sacchi»
«Ci riscattammo, e la città tornò ad amare i parà»

di MARIO NERI

Uno, due. Uno, due. Un sacco dopo l’altro. Il sudore sulla fronte, l’aria che punge nei polmoni. Se non fosse per quella lastra marrone, quel groviglio di acque tronchi auto carcasse di animali che scorre verso il mare, oggi il cielo si sarebbe ridisteso sul fiume con i suoi colori pastello. Dopo otto giorni, dalla Torre Guelfa sta sbucando un tramonto. E loro hanno eseguito gli ordini, cucito gli argini, steso una cerniera sulle spallette, un muro di stracci e sabbia montato per ingabbiare la bestia. Che ruggisce ancora ma finalmente sembra solo una grande paurosa attrazione. I pisani sono venuti a vederla, assiepati sulle sponde come sugli spalti di un circo itinerante. «Ce l’abbiamo fatta, Carlo, è finita». E pensare che l’ultimo mese è stato un’agonia, un pensiero fisso, tutto il tempo a dirsi «evvai, è finita la naja».

Quel pensiero poi è piovuto nell’elenco dei dispersi, travolto dalla piena degli allarmi, degli sos, della disperazione. Nella mente di Natale Gonnella, milanese di 21 anni, è riaffiorato solo ora, ore 17 del 12 novembre 1966, con lo scroscio dell’applauso dei pisani affacciati sulla fatica di questi ragazzi, comparso negli occhi del commilitone Carlo Alteri, lui romano, 20 anni, che invece il congedo se l’è fatto promettere “anticipato” dal tenente Giorgio Caccavella minacciando una fuga da perfetto disertore. Rimbomba, sembra un’eco nel petto questo battito di mani, il ciaf ciaf ha perfino smorzato i grugniti dell’Arno, «ma soprattutto ha spezzato la silenziosa ostilità dei pisani e di Pisa nei confronti dei paracadutisti». Così fra le donne, gli uomini e i ragazzi sul lungarno Pacinotti ora c’è qualcuno che a Natale e Carlo sta anche andando incontro, e sì, ora li ringrazia, li abbraccia questi ragazzi della Folgore, centinaia di ventenni da giorni con le mimetiche e gli anfibi piantati nel fango, inviati nelle campagne a portare in salvo famiglie, impiegati notte e giorno in una città trasformata in trincea, in un campo di battaglia, un conflitto fra uomo e natura.

Ci sono ricordi che in questi 50 anni sono riusciti a sfuggire alla fame della bestia, alla sua voracità di dolore e tragedia, immagini che ci ricordano come ognuno coltivi, culli o rimuova la sua personale memoria del disastro, ma che a volte ci restituiscono il quadro d’insieme offuscato dalla fame di paura. Perché se nella distruzione l’alluvione ha ricostruito qualcosa è anche il rapporto fra civili e parà, un distacco mai sanato dal dopoguerra per quell’adesione riottosa del corpo alla Repubblica, per una distanza dal tessuto sociale di una città universitaria che stava scoprendo i Beatles e l’orrore della guerra nel Vietnam. «Erano tempi in cui fra civili e parà c’erano i nervi tesi,quell’applauso ci colpì», dice Gonnella. «E molto ci regalarono i contadini, gli allevatori delle campagne di Pontedera», ricorda Pio Enzo Merli, di Vigevano. «Nonostante non ci amassero, i loro volti, la loro riconoscenza, mi hanno fatto ricredere». «C’era stato un parapiglia una sera, militari e civili se le erano date, da allora ci guardavamo in cagnesco, il fango fu una medicina, spalare uno a fianco dell’altro ci restituì rispetto reciproco», racconta Adelio Cudicio, anche lui milanese. Erano ragazzi, ingenui, forti, allegri, spensierati, questi uomini oggi tutti oltre la soglia dei 70 anni, e per tutti quell’animale ricoperto di croste fu anche un’occasione di crescita, il rintocco per un lungo gesto eroico. Poi, certo, l’Arno non ha mai smesso di frugare fra suoni e immagine depositate sul fondo delle vite che ha travolto. Anche i parà hanno negli occhi le case sommerse nelle campagne di Pontedera, le migliaia di mucche annegate nei cascinali, le fucilate e i pianti delle famiglie fatte salire sui tetti, le perlustrazioni con i gommoni, i mezzi anfibi, le ronde anti sciacallaggio a Firenze o le sliding doors nel buio della sera del 4 novembre. «Uscite, via, uscite!». Mannaggia, la Bibbia è il suo ultimo film al cinema Italia. Ancora cinque giorni e sarà a casa. La pioggia, per due gocce di pioggia annullare tutto, che esagerazione. Ma fuori è diluvio, corso Italia si allaga, l’Arno ingoia Ponte di Mezzo. «Dobbiamo passare», urla Natale agli altri. Carlo s’è fermato a salutare una bella, arriva un minuto dopo. «Via di qui», urla il pompiere, dovete passare sul ponte di Solferino. A Natale lanceranno una fune i carabinieri da Borgo Stretto, a Carlo una coperta calda alla Gamerra. Uno è stato spedito a Santa Maria a Monte, l’altro a Massaciuccoli per giorni. Ma ora sono qui, a godersi l’applauso dal ponte, appena prima che la bestia divori anche lui

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