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Pubblicato il 11/01/2022

RASSEGNA STAMPA- LA GUERRA SEGRETA DEGLI INCURSORI ITALIANI CONTRO L’ISIS

la Repubblica ed. Nazionale
sezione: MONDO data: 11/1/2022 – pag: 1

IL CASO

La guerra segreta degli incursori italiani contro lo Stato islamico

di Gianluca Di Feo e Paolo Mastrolilli

Le forze speciali italiane nel cuore del Califfato, in azione con professionalità e capacità di dialogo, fino a diventare determinanti nell’attacco frontale contro l’Isis. Come a Falluja, la roccaforte di tutte le insurrezioni sunnite e primo bastione dello Stato Islamico assediato nel 2016 dalle truppe del governo iracheno sostenute dalla coalizione internazionale. A rivelare a Repubblica la storia segreta della missione degli incursori del Col Moschin è un colonnello dei Marines, Andrew Milburn, passato nella riserva dopo 31 anni di servizio.

Nell’estate 2015 Milburn riceve l’incarico di coordinare sul campo tutte le forze speciali occidentali impegnate nella lotta contro il Daesh. Ma c’è un problema: agli americani viene proibito collaborare con i reparti scelti iracheni dell’ERD, l’Emergency Response Division dipendente dal ministero dell’Interno di Bagdad. Sono battaglioni formati da sciiti, ex miliziani legati all’Iran e protagonisti di feroci rappresaglie contro i sunniti. «Nella battaglia di Falluja del 2016 questo divieto era problematico, perché l’Erd era l’unità di punta irachena in gran parte dei combattimenti. Per fortuna, la task force italiana era stata incoraggiata dalla sua catena di comando ad aiutarli», spiega il colonnello Milburn: «Così, utilizzando i nuclei italiani di direzione del tiro, il comando alleato ha potuto far intervenire i nostri aerei permettendo alle truppe sciite di avanzare, ma evitando che si percepisse un sostegno diretto della coalizione
».

Il legame tra il nostro contingente e questo reparto è stato molto stretto. La formazione è stata curata a Bagdad da istruttori dei carabinieri e perfezionata poi dagli incursori del Nono Reggimento, il leggendario Col Moschin. Un reporter americano ha lodato la bravura di un cecchino dell’Erd, che lo ha salvato da un’imboscata dell’Isis, ringraziando gli italiani che gli avevano insegnato a sparare. «I commandos italiani non erano autorizzati a intervenire direttamente negli scontri, ma si trovavano ad una distanza dalle avanguardie di Erd che consentiva le comunicazioni con i cellulari. Perciò avevano insegnato alle pattuglie dell’Erd come fornire per telefono le coordinate delle postazioni dell’Isis. Poi gli italiani chiamavano il mio comando a Bagdad, che inviava i droni o i bombardieri sugli obiettivi indicati. C’erano grandi rischi che qualcosa andasse storto, ma grazie alla professionalità degli italiani non è mai successo».

A Falluja si è combattuto casa per casa per oltre cinque settimane. Una battaglia spietata, che ha visto le squadre del Col Moschin operare a ridosso della prima linea. Sono stati giorni terribili: un infermiere degli incursori si è trovato da solo a soccorrere tutti i feriti provocati da un’autobomba. Il caporale italiano ha curato più di cento persone, tanto da venire premiato negli Usa come “medic of the year”. In un’occasione, ricorda il colonnello Miburn, la base degli italiani è stata attaccata direttamente dal Califfato. Ma i nostri soldati hanno avuto un altro ruolo strategico: «Quando le unità di Erd catturavano prigionieri, documenti e cellulari, consegnavano tutto il materiale agli italiani, che lo passavano a noi. Un esempio? Un miliziano britannico del Daesh era stato ucciso dall’Erd, che gli aveva preso il telefonino e dato agli italiani. Noi così abbiamo potuto analizzarlo, recuperare le foto e trasmettere le informazioni agli inglesi, in modo da ricostruire come questa persona era stata radicalizzata e reclutata nel Regno Unito».

Il triangolo tra Col Moschin e Erd non è avvenuto solo a Falluja ma secondo più fonti sarebbe proseguito fino alla caduta di Mosul e la sconfitta finale del Califfato, anche se dall’autunno 2016 le forze speciali italiane hanno intensificato soprattutto la collaborazione con i peshmerga curdi. Perché il rapporto con il reparto sciita veniva incoraggiato dalla catena di comando italiana? «Non lo so. Non so se è stata una decisione del comandante italiano in Iraq oppure se era stata presa a Roma».
Nella relazioni presentate al Parlamento ogni anno si cita l’attività di addestramento svolta in favore della discussa unità del ministero dell’Interno iracheno. Se ne parla anche nel dossier del 2020, nonostante un reportage fotografico realizzato a Mosul avesse documentato tre anni prima torture e abusi commesse proprio dagli uomini dell’Erd. «Non ho informazioni dirette, ma non ne sarei sorpreso – commenta Milburn – . Tutti ci siamo trovati a lavorare con gli iracheni; abbiamo visto unità della polizia, del ministero dell’Interno e dell’esercito che hanno fatto cose orribili. Ma non possiamo mai dire che sono affari loro, che il fine giustifica i mezzi, purché non ci sia un nostro coinvolgimento diretto. La nostra linea era di interrompere ogni rapporto anche solo in presenza di accuse».

A rendere problematiche le relazioni tra eserciti occidentali e Erd c’era anche l’ombra del generale Soleimani, il regista delle operazioni segrete iraniane poi ucciso da un raid americano in Iraq due anni fa. «Non posso parlare di informazioni classificate, ma c’era sicuramente un legame fra Soleimani e il generale Sama che guidava l’Erd». Nonostante l’impegno comune contro l’Isis, le relazioni tra sciiti e americani erano sempre tese. «Il buon rapporto tra gli italiani e le truppe della Erd ha salvato la mia vita e quella di diversi ufficiali americani. Eravamo andati nei dintorni di Bagdad per un’ispezione ma c’è stato un incidente e le milizie sciite ci hanno circondati. Eravamo soltanto in cinque davanti a 40 o 50 miliziani con le armi spianate e il colpo in canna: pensavamo ci avrebbero ammazzati. Ma il generale Sama, con cui gli italiani avevano un ottimo rapporto, è intervenuto e ci aveva salvati».
Oggi l’Italia si prepara a prendere la guida di tutto il contingente Nato presente in Iraq. «Ho lavorato con i vostri soldati anche in Libia e in Niger, vengono accolti dalla popolazione in modo diverso rispetto agli americani. Per noi è sempre un vantaggio contare sugli italiani. È un modo di mantenere l’influenza proporzionata, con una piccola forza ma molto efficace. Ha un effetto strategico, è una vittoria per tutti». L’efficacia della missione italiana in Iraq dipende dal buon rapporto con gli sciiti? «Sì, ma io la vedo così: la relazione con l’Erd all’epoca era un male necessario. Però adesso che il Califfato è stato battuto, le milizie iraniane sono sicuramente una minaccia. Tutti noi, italiani e americani, dobbiamo stare molto attenti a non essere associati a truppe che favoriscono l’influenza iraniana o gli estremisti sciiti».

Il colonnello è entusiasta degli incursori italiani: «In ottima forma fisica, svegli, intelligenti, capaci. Molto professionali, non dovevi spiegare molto, sapevano cosa fare ». E non si sono mai opposti ai suoi ordini, nonostante le differenti regole di ingaggio: «Erano molto cooperativi. Ma non si trattava di ordini, era una conversazione: puoi fare questo? E la risposta era sempre positiva». C’era un solo limite: i droni. «Il vostro governo ha mandato questi ragazzi al fronte con droni di merda. Avevano un’autonomia limitata, si rompevano sempre o venivano abbattuti, perché erano molto rumorosi e visibili. Per questo gli abbiamo dato i nostri droni Puma».

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