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Pubblicato il 29/12/2018

RASSEGNA STAMPA: STORIA DI UN PARACADUTISTA DELLA FOLGORE ORA LEGIONARIO

Quello che non ci raccontano: memorie di un soldato infermiere – link

Roma, 29 dic – La guerra e le professioni mediche o, meglio, le specializzazioni mediche visto che si parla di soldati. Ne abbiamo parlato con Carlo Agnona, ancién caporal 2 R.E.I (Legione Straniera), già Parà della Folgore. Oggi opera come Security Advisor per realtà private di altissimo livello.


Ciao Carlo, parlaci un po’ di te, della tua avventura da soldato infermiere…

Partiamo dalla mia vita militare antecedente alla Legione, ovvero al periodo in cui ho servito la Brigata Paracadutisti Folgore, poi nell’87 mi sono arruolato in Legione per l’appunto. Dopo il duro addestramento iniziale (ai miei tempi non era come oggi), sono stato assegnato al 2R.E.I (secondo Reggimento Straniero di Fanteria) ed è iniziato immediatamente un addestramento più specifico in linea con l’attività principale del Reggimento: combattimento di fanteria. E, a dire il vero, dopo soli tre mesi dalla mia affettazione presso il 2R.E.I parto per la mia prima Opex (operazione esteriore), quindi durante la mia prima missione non ho ancora la specializzazione medica e la destinazione è il Ciad.

Raccontaci come funziona la vita di tutti i giorni di un soldato quando è in missione….

È opportuno ricordare che, ai miei tempi, in Legione Straniera esistevano tranquillamente punizioni corporali, prigione ecc. ma quando sei in Africa è come se fossi già in prigione, nel senso che non ti puoi muovere liberamente, tuttavia la disciplina ed il rigore valgono tanto in Francia quanto in Opex, quindi la situazione è la medesima e chi sbaglia paga. La vita di tutti i giorni varia a seconda del tipo di attività che si svolge, noi inizialmente eravamo di stanza ad Abéché (una città nel deserto) e facevamo pattugliamenti in zone desertiche per controllare eventuali presenze di ribelli. Un pattugliamento poteva durare anche quattro o cinque giorni in cui: non potevi lavarti, non potevi bere acqua fresca, non potevi dormire in un letto, mangiavi quello che capitava e ovviamente c’era il pericolo dei ribelli.
Una volta tornati alla base, stremati dal clima del deserto, dalle attività svolte e dal lavoro ininterrotto; il nostro Tenente cercava sempre di rallegrare gli animi organizzando delle serate nei locali, cercando di creare una sorta “vita normale”. Ma quali locali? Siamo in mezzo al deserto! Eppure un localino c’è, con gli standard africani del tempo chiaramente, ma è l’unico posto dove si può bere qualcosa e ascoltare musica.

Quindi alla sera, quando si poteva, ci organizzavamo per uscire. Ricordo ancora la mia prima uscita, arriviamo davanti al locale ma, essendo il più giovane Legionario in termini di anzianità di servizio, io resto di guardia al veicolo. Mi chiamano dentro più tardi per poter consumare la mia birra, ma prevalentemente passo la serata a fare la guardia; ci troviamo in un quartiere buio di una città africana in guerra, sono da solo per giunta. Cerco di non preoccuparmi di questo aspetto e faccio il mio dovere, ad un certo punto arriva un ragazzino e si dirige verso di me: gli intimo di non avvicinarsi, mi accorgo che è armato di machete e continua ad avanzare; metto il colpo in canna e lui non si ferma, vedendolo da più vicino è solo un bambino! Lo prego di fermarsi, ci guardiamo negli occhi, ha al massimo 15 anni e non voglio sparare; alla fine per fortuna desiste e scompare nel buio. Nella vita di tutti i giorni quindi, si alternavano momenti di lavoro, momenti di relax, il tutto in un contesto di guerra in cui si possono verificare eventi tragici in qualsiasi momento.

Abbiamo operato in 3 zone del Ciad, soprattutto in zone di confine, le città sul confine con la Libia erano le più a rischio. Il Ciad combatteva internamente i ribelli, la Libia dava supporto ai ribelli in questione e le ostilità erano inevitabili, quando entravamo nelle zone indicate per prestare soccorso, il paesaggio era agghiacciante. Le strade erano letteralmente coperte da macerie e corpi dilaniati.

Dopo la prima missione in Ciad, come hai impostato la tua carriera nel Reggimento?

Rientrato dal Ciad, dopo una licenza di 45 giorni, sono stato selezionato per lo stage Infermieri. Questa specializzazione non è accessibile a tutti e, quando l’ho fatta io, durava 4 mesi. Lo stage viene effettuato a Castelnaudary, e come “cavie” utilizzi le nuove reclute. Il corso è molto duro ed in soli 4 mesi si ottengono competenze notevoli: sai dare punti di sutura, togliere cisti, effettuare una tracheotomia, curare le infezioni, curare gli amputati, vi è una vasta formazione sulle malattie tropicali ecc.
Durante il corso, mi sono anche fatto 5 giorni di prigione per aver coperto un camerata che non si era presentato all’appello. Io in quanto responsabile dell’appello mattutino, non ho comunicato subito la sua assenza e, alla fine, siamo finiti in prigione entrambi. Ci svegliavano alle cinque del mattino con un secchio d’acqua fredda, corsa in mutande nel piazzale dove tutte le reclute potevano vederci, e poi si tornava al corso.
Termino con successo il mio stage da infermiere, e una volta tornato al Reggimento, il mio Capitano mi concede due giorni di licenza, e poi mi rimanda a Castelnaudary per lo stage Caporal e pilota mezzi blindati.

Quindi affronti la tua seconda missioni con il nuovo grado da soldato infermiere, nuove competenze e nuove responsabilità.

Si esattamente, ripartiamo per il Ciad e la mia Compagnia, questa volta è impegnata solo ad Abéché ed Ndjamena. Facevamo la solita attività di pattugliamento: 5 giorni nel deserto e 3 di “riposo”, per riposo si intende che eravamo in base ma c’erano comunque svariate attività da fare, ma se non altro si poteva fare la doccia e avere un ventilatore. Una delle principali attività era presidiare le riserve d’acqua, durante la notte era abbastanza facile imbattersi in allegri gruppi di iene. Lo scopo delle perlustrazioni, era anche conoscere la popolazione, e per entrare nei villaggi (da notare che il Ciad era già al 60% musulmano) occorreva il benestare del capo. Si poteva entrare solo in 3 uomini, ovviamente il Tenente col suo aiutante e l’infermiere, quindi io.

Si ricevevano informazioni in cambio di prestazioni mediche e materiale medico, lo scopo era anche aiutare la popolazione che subisce la guerra. Per esempio la nostra base era aperta alla popolazione locale per poter accedere all’infermeria, poteva arrivare la mamma col bambino influenzato, come potevano presentarsi casi più gravi. Ricordo ancora durante un pattugliamento in un villaggio, mi sono imbattuto in una ragazza morsa da un asino. Pensiamo ad un villaggio remoto, una ragazza morsa da un asino senza un minimo di standard igienici e senza mezzi per curasi; sono intervenuto facendo del mio meglio, ma la ragazza sarebbe dovuta venire in infermeria della base per giorni ancora, e spesso non era possibile.

Tenevamo monitorate anche le ragazze dei bordelli, i così detti “puff”, che venivano da noi per visite mediche.

Gli interventi non venivano effettuati solo a favore della popolazione, ma anche in soccorso ai commilitoni. Un infortunio non è necessariamente una pallottola, mi è capitato di vedere dei commilitoni sbalzati fuori dalla camionetta o cadere da mezzi militari. Le ferite che si possono verificare sono, fratture, lussazioni, lacerazioni e così via; il tutto in mezzo al deserto e comunque in zone remote od ostili e spesso senza nemmeno poter utilizzare i guanti o attrezzatura adeguata. La cura medica più importante, l’ho data ad uno dei nostri per esempio. Un legionario cadendo dal camion aveva ingoiato dei denti, non riuscivamo ad espellerli e, per salvarlo, ho dovuto praticare la tracheotomia.
Tornando alla popolazione, noi Legionari davamo anche da mangiare alla povera gente, ma con modalità particolari, in quanto non potevamo farci prendere ogni giorno pentole e piatti. Quindi si passava il cibo a mano, e queste persone si schiacciavano e si azzuffavano. Una volta intervenni con la forza per dare da mangiare ad una giovane mamma con bimbo a seguito, che stava per essere schiacciata da altri uomini.
Ricordo quando siamo intervenuti in seguito allo schianto di un aereo, purtroppo non c’era più nulla da fare per i piloti; una volta domate le fiamme abbiamo recuperato i corpi totalmente carbonizzati, sono scene che non dimentichi . Il mio collega infermiere riportò ustioni.

Una missione divertente e singolare nel contesto ciadiano, è stata la sicurezza nella villa dell’ambasciatore francese in Ciad, ma l’abitazione era disabitata; eravamo li a presidiare in attesa di eventuali ribelli. Io in quel contesto ero chef de group e coordinavo il servizio, la base ci portava solo il cibo, per il resto eravamo autonomi. Ovviamente diedi il permesso ai miei uomini di fare il bagno nella piscina dell’ambasciatore, e organizzai cene come si deve con l’ausilio dei domestici. Come si dice in Legion: pas vu pas pris.

Una cosa che tengo a precisare: tanti ci vedono come mercenari, guerrafondai o gente che non ha nulla da perdere; beh io lavoravo prima di arruolarmi, e lavoro tuttora. Sono pure sposato con una donna del Kenya, quindi certi luoghi comuni lasciano il tempo che trovano. STEFANO ARCARI

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