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Pubblicato il 14/11/2014

RASSEGNA STAMPA SULL’INCURSORE MARCO MANDOLINI

IL TIRRENO del 14 Novembre 2014

Il Tirreno ed. NAZIONALE
sezione: LIVORNO data: 14/11/2014

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C’è il Dna dell’assassino- «Il parà ucciso per soldi»
A distanza di 19 anni riaperta l ’indagine sull’omicidio di Marco Mandolini

di Federico Lazzotti

LIVORNO- Per riuscire ad aggredire a mani nude un Rambo come “Condor Mike”, nome in codice di Marco Mandolini, sottoufficiale della Brigata paracadutisti Folgore, battaglione “Col Moschin”, massacrato all’età di 35 anni la notte del 13 giugno del 1995 sugli scogli del Romito, serviva un altro Rambo, e soprattutto un movente talmente valido da mettere a repentaglio la propria vita nel tentativo di portare a termine un simile piano criminale. È ripartita da questa tesi e dal progresso nelle indagini di laboratorio che hanno permesso di isolare il dna dell’assassino, la terza inchiesta in quasi 20 anni per cercare di fare luce su uno dei delitti irrisolti più intricati e chiacchierati della storia criminale della provincia di Livorno. Sì perché questo omicidio militare è stato di volta in volta associato a piste che portavano al mondo omosessuale prima, ai servizi segreti poi, fino ad arrivare a parlare di un vero e proprio giallo di Stato, dove si sarebbero intrecciati tanti misteri: sospetti sull’uso di proiettili all’uranio impoverito con cui la vittima sarebbe venuto a contatto, traffici d’armi, personaggi e luoghi legati al caso Gladio, fino alla tragedia di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio nel ’94 insieme all’operatore Miran Hrovatin. Quest’ultima pista seguita perché il maresciallo Mandolini, proprio nel 1994, era in missione in Somalia come caposcorta del generale Bruno Loi. Ora i carabinieri del nucleo investigativo, coordinati dai pubblici ministeri Alessandro Crini e Massimo Mannucci, hanno tirato una riga e preso una direzione precisa. Tratteggiando sia il profilo dell’assassino: un collega o comunque un militare capace di aggredire la vittima, colpirla con una quarantina di coltellate e poi finirlo fracassandogli la testa con un sasso di 25 chili. Sia il movente: quel denaro che molti paracadutisti della Folgore, in quegli anni, avevano investito, dopo aver fatto cassa rischiando la vita nelle missioni all’estero, in una finanziaria che prometteva interessi da capogiro e che invece si è poi rivelata una fregatura miliardaria (si parla di vecchie lire). Ecco perché per riscaldare questo secondo “cold case” riaperto dalla Procura di Livorno nel 2013 dopo quello sull’’omicidio di Francesco Della Volpe, gli investigatori si sono spinti fino ad Alessandria, in Piemonte, per andare a caccia di quel che resta della Con.Fin. Service, una società di consulenza bancaria che tra gli anni Ottanta e Novanta offriva interessi da capogiro a chi era disposto a investire soldi freschi. «C’era un promotore interno alla Folgore – confermano gli inquirenti – che proponeva l’affare offrendo come garanzia la sua appartenenza al corpo e molti, tra cui anche la vittima, avevano aderito». Ma in realtà dietro alla società si sarebbe nascosta la classica catena di Sant’Antonio dove i soldi di chi entrava per ultimo venivano consegnati come prova del buon affare agli “azionisti” che avevano investito poco prima. Ecco perché il gioco è funzionato finché la base della piramide ha continuato ad allargarsi. E questo è durato fino all’8 giugno 1995, quando la società è stata dichiarata fallita e i vertici finiti in manette. Cinque giorni dopo il crac un ragazzino tedesco in vacanza sul Romito, con i genitori, intorno alle 9 di sera si è trovato di fronte a delle chiazze di sangue che dalla strada Aurelia portavano fino al cadavere del paracadutista. Possibile che i due eventi siano collegati? Verosimile che qualcuno che è rimasto fregato dall’affare si sia voluto vendicare nei confronti di chi gli aveva garantito un guadagno sicuro? O forse il contrario? A questa tesi danno forza alcune testimonianze raccolte dagli investigatori nonostante la reticenza di chi oggi, parà in pensione, allora visse sulla propria pelle il fallimento di questo investimento. «Prima del crac della società – hanno raccontato – si innescò un meccanismo infernale dove chi aveva capito di aver perso i suoi soldi cercava di convincere i colleghi ad investire, ma solo per riprendere ciò che aveva perduto». A questo va aggiunto un altro particolare, confermato anche dai familiari della vittima: la volontà del 35enne di farla finita con la vita militare – ancora non sapeva di aver contratto una malattia che forse lo avrebbe ucciso – e di investire i propri risparmi per aprire un villaggio turistico ai Caraibi. Invece il suo progetto si è infranto sugli scogli del Sassoscritto dove – secondo gli investigatori – aveva appuntamento con qualcuno che conosceva, e che si è trasformato nell’ suo assassino. Un Rambo che ha lasciato il suo Dna. E se la pista della Procura è giusta c’è un parà (o ex parà) che sta tremando all’idea di comparare il proprio profilo genetico con quello dell’assassino.


E ora per scoprire il killer- test a centinaia di militari – le indagini di carabinieri E procura


LIVORNO «Non è un’inchiesta sul corpo dei paracadutisti e nemmeno sulla Folgore o sul battaglione “Col Moschin”, ma un tentativo di fare giustizia sulla fine di un corpo». È un gioco di parole quello con il quale, chi indaga sull’omicidio di Marco Mandolini, il sottoufficiale ucciso la notte del 13 giugno 1995 quando aveva 35 anni, spiega in che modo gli investigatori si stanno muovendo per dare un nome a “Ignoto 1”, il profilo genetico trovato sugli scogli del Sassoscritto, conservato per 19 anni e dal quale, oggi, è stato isolato il Dna dell’assassino: un uomo che ha agito da solo. L’idea dei pubblici ministeri Alessandro Crini, che segue anche il “cold case” sul delitto di Cecina, e Massimo Mannucci, è quello di muoversi proprio sulle orme dell’inchiesta che ha portato, nei mesi scorsi, a individuare uno dei presunti assassini di Francesco Della Volpe: comparare il Dna trovato sul luogo del delitto con quello delle persone che – visto il movente ipotizzato e l’ambiente in cui si è consumato il crimine – potrebbero in qualche modo essere coinvolti. A differenza dell’omicidio del muratore di origine campana, però, in questo caso le persone da sottoporre al tampone che poi deve essere comparato con il profilo del presunto colpevole, sono decine, addirittura centinaia. A cominciare dagli appartenenti al battaglione “Col Moschin” in quel periodo e gli altri parà della Folgore che allora avevano investito nella finanziaria poi fallita e che avrebbe innescato la rabbia della vittima oppure quella dell’assassino. Ecco perché fare una scrematura su chi sottoporre al test e chi no è difficilissimo se non impossibile, tanto che il cerchio potrebbe ancora allargarsi, facendo salire anche i costi dell’operazione, particolare da non sottovalutare, visto che fare un singolo tampone costa un centinaio di euro alle casse del Ministero della Giustizia. «Per il momento non abbiamo ancora iniziato con il campionamento», confermano dalla Procura tagliando corto. Al momento in cui arriverà il via libera ci sarà poi da superare due difficoltà: la prima è quella di rintracciare tutte le persone da analizzare poiché molte di loro potrebbero non vivere più a Livorno, l’altra è legata al tempo che è ormai trascorso dal delitto. Molti dei militari che allora erano in servizio, oggi hanno superato gli 80 anni di età, alcuni si ritrovano ogni giovedì al circolo ufficiali e godono di ottima salute, ma non è escluso che alcuni ex parà possano essere deceduti. Se così fosse, su questi individui non sarebbe possibile effettuare il test, e nel caso in cui proprio tra questi si dovesse nascondere l’assassino, il suo segreto non verrebbe mai svelato.

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