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Pubblicato il 02/02/2016

CODICI MILITARI ITALIANI: NECESSARIA LA RIFORMA ?

PARMA- Nell’ambito dello stesso incarico, il Militare italiano gode di uno “status” giuridico di inviato per ristabilimento della pace e contemporaneamente di militare inviato all’estero, con norme legislative “parallele” con responsabilità di peso differente.

L’ordinamento italiano prevede infatti che nelle missioni di mantenimento della pace venga rispettato il titolo IV del libro III del Codice penale militare di guerra, che contiene le norme dirette a punire le condotte contrarie al diritto internazionale umanitario.

La legge penale militare, invece, si applica dal momento della dichiarazione dello stato di guerra, ma è previsto che possa essere anche applicata nello stato di pace, durante operazioni militari all’estero.

L’art. 9 Codice penale militare di guerra prevede infatti, in particolare, che “sino alla entrata in vigore di una nuova legge organica sulla materia penale militare, sono soggetti alla legge penale di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate”. Il Codice penale militare di guerra ha trovato così applicazione in relazione alle missioni Enduring Freedom, Active Endeavour e ISAF in Afghanistan (2001) e a quella Antica Babilonia in Iraq (2003). Tuttavia, senza una riforma organica della materia, dapprima decreti-legge hanno derogato alla normativa che avrebbe dovuto utilizzarsi in caso di invio di corpi armati all’estero, dichiarando l’applicazione del Codice penale militare di pace. E poi, con la L. 274/2006, l’applicazione del Codice di pace è diventata la regola. La legge 4 agosto 2006, n. 274, ha infatti stabilito per tutte le missioni che impegnano contingenti italiani la vigenza del codice di pace.

Molte forze politiche stanno chiedendo di formulare una normativa ad hoc per le missioni militari all’estero , per evitare l’applicazione del codice di guerra, quale unico strumento.

Il ricorso al codice penale militare di pace sarebbe inadeguato.
Vincolati al Codice penale militare di pace (che, all’art. 41, autorizza l’uso delle armi per «respingere una violenza o vincere una resistenza»), i nostri Comandi all’estero hanno avutio – e potrebbe avere in futuro- lampanti problemi di incoerenza normativa-

Nella legge di finanziamento delle missioni sono state citate specifiche cause di non punibilità, ma si tratta di provvedimenti transitori, come l’art. 4, capo 1/6 della Legge 197/2009 che cita una esimente per il militare che «in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari».
Non si tratta, quindi , di una una norma di legge, ma di un atto amministrativo, quale devono essere considerate le direttive militari e le regole di ingaggio.

Le cosiddette regole di ingaggio (Rules of Engagement – RoE) sono quel complesso di norme, etiche, legali e procedurali, che costituiscono un codice di condotta, che specifica circostanze e limiti dell’uso della forza e che devono essere applicate dal personale militare in una determinata missione in Teatro d’operazioni. Ciò che è certo è, però, che le regole d’ingaggio hanno natura amministrativa, non possono derogare la legge e, qualora siano in contrasto con la legge penale, non possono essere considerate come una causa di giustificazione, potendo essere al massimo valutate come una circostanza attenuante e non potendo comunque prevedere un uso della forza più elastico rispetto a quello consentito dalla normativa penale in materia di uso legittimo di armi, legittima difesa individuale, etc. Tanto premesso, non v’è dubbio che l’esigenza di una revisione organica della materia sia improrogabile.

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