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Pubblicato il 29/12/2021

RASSEGNA STAMPA- FORZE SPECIALI ITALIANE NEL MONDO DI CLAUDIA SVAMPA GIORNALISTA DI GUERRA AMICA DEL NONO

da duerighe.it

Be brave: storie di passioni e di coraggio

Claudia Svampa è una giornalista embedded che da anni è inviata nei principali teatri di guerra per raccontare il lato più invalicabile ed inesplorato dell’anima di un soldato, tirando fuori i sentimenti di chi è abituato a governare le emozioni per sopravvivere.


di Manuela Travaglini

«In ogni parte del mondo c’è un angolo di cielo dove la notte è spenta di stelle e accesa di scie luminose dei missili. Dove di giorno il caldo brucia addosso, la sabbia penetra nella pelle, e l’aria è satura di grida, soffocate dalle note monotone dei kalashnikov. A volte è in Iraq, altre in Afghanistan, Siria, Libia o Somalia. Ma è sempre in quella parte di mondo buia, dove si combattono guerre che non chiamiamo con il loro nome. Guardare lì fa male. È nei paesi più devastati che troviamo loro, gli incursori del Nono, soldati d’élite dalle capacità uniche, abituati a vivere nell’ombra e operare in condizioni estreme. Sono forza inaudita di disciplina e serietà, di tecnica e difesa, e rappresentano la punta di diamante dell’Esercito. Vivono come un branco di lupi, affamati di sogni e folli di ideali. Con un’anima che conosciamo poco, e che incanta». 

In ogni parte del mondo – Reportage tra le Forze speciali nei teatri di Guerra, di cui sono riportate le parole in apertura,è un romanzo-reportage che ha preso vita dalle esperienze maturate nei teatri di guerra da Claudia Svampa, giornalista embedded, che con rigore pazienza e passione ha saputo guardare oltre la tecnica e l’addestramento, oltre le abilità fisiche e militari, e raggiungere il lato più invalicabile ed inesplorato dell’anima di un soldato, tirando fuori i sentimenti di chi è abituato a governare le emozioni per sopravvivere.

Con Valentina De Nicolò, ufficiale medico e autrice di Eroe in camice bianco e Chiara Giannini, giornalista in aree di crisi ed autrice di Inferno a Kabul, Claudia Svampa ha da poco partecipato a Londra all’evento “Be brave: storie di passioni e di coraggio”, nel corso del quale ha presentato il libro In ogni parte del mondo. Un’opera che nasce dalla sua esperienza di giornalista embedded tra Forze armate italiane in missione all’estero. Tre donne, tre scrittrici, per raccontare il valore dei nostri soldati in missione in ogni angolo della terra, di quegli uomini abituati a vivere nell’ombra e nella riservatezza e ad operare in condizioni quasi sempre estreme. Una vita “speciale” quella di un incursore che opera nelle aree di crisi, ma non priva di pericoli, come anche le missioni giornalistiche di chi li segue per documentarne il lavoro.

In ogni parte del mondo si apre con la descrizione dell’addestramento cui Claudia si è dovuta sottoporre per poter partire embedded nelle basi militari all’estero: «sono morta quattro volte, dice, ironizzando sui tanti errori commessi nella fase preparatoria. Vorrebbe apparire inadeguata, ma poi basta sentirla parlare, conoscerla, e si capisce subito che è una tosta, che non è un caso che tra l’élite militare, con gli incursori del Nono Reggimento Col Moschin, In ogni parte del mondo, ci sia finite proprio lei.

Claudia, «Gli incontri con l’élite delle forze armate italiane non sono state interviste da microfono e taccuino» hai scritto.  «Nascono invece dai molti giorni trascorsi insieme in luoghi sperduti del mondo, dall’Iraq alla Somalia. Serate passate nelle basi militari in cui, dopo una giornata di lavoro intenso, ci si ritrovava a parlare insieme, sotto le stelle, con un bicchiere di Coca Cola o di birra in mano».

Con una metafora bellissima, li hai definiti “un branco irrequieto di lupi affamati e folli. Affamati di sogni e folli di ideali”. Come sei riuscita a scandagliare le corde dell’anima, a portare a galla emozioni, paure, sacrifici di chi è abituato a blindare i sentimenti?
In realtà la definizione di «branco di lupi» nasce più da loro, gli operatori del Nono, che da me. Io l’ho trovata perfettamente aderente al loro essere e alla loro disciplina di vita e dunque «esportata» nella narrazione di questi uomini. In questa definizione credo sia contenuta la risposta del perché, per la prima volta, loro, i soldati, abbiano scelto di raccontarsi umanamente ai lettori di un libro scritto per un pubblico generalista, cioè non rivolto agli addetti ai lavori ma a chi desidera conoscere aspetti umani ed emotivi delle persone che, a lungo in questi anni, hanno operato in silenzio, all’estero con estrema professionalità e riservatezza. La metafora del lupo, infatti, ci riporta ad un archetipo relazionale, dove il branco, come nucleo operativo, soddisfa i bisogni di protezione e di sostegno del gruppo, e dove ciascuno, all’interno dello stesso, ha un suo irrinunciabile ruolo a salvaguardia della comunità. Il lupo é un animale solitario e al tempo stesso socievole, quello che nell’immaginario collettivo racchiude il coraggio e l’umanità dell’accoglienza, anche della specie diversa,  se con un solo esempio, ci rifacciamo alla simbologia della lupa che accoglie, e allatta i gemelli Romolo e Remo.

Infiltrarsi, se così si può dire, tra i loro sentimenti e il vissuto emotivo, é stata sicuramente una grande responsabilità etica e morale, dovendo «maneggiare» nella raccolta emozioni intense e impegnative, ma il merito naturalmente va a questi uomini, che oltre ad aver accettato di raccontare i propri sentimenti, hanno avuto fiducia in me permettendomi di raccogliere le loro testimonianze e renderle note.

Con questo libro hai detto di voler riparare al fatto che dei valorosi militari italiani che lavorano nell’ombra troppo spesso si ignorano “l’impegno, il coraggio, la serietà e la lealtà” e quasi mai se ne riconoscono “l’eccellenza e la straordinarietà”: perché credi che questo accade? Molti Paesi, soprattutto anglosassoni, celebrano i loro corpi militari come eroi. Perché noi siamo ancora cosi poco inclini a celebrarne l’eccellenza e la straordinarietà?
Ecco, credo questa sia il nodo culturale dal quale partire: l’articolo 11 della nostra Costituzione dice con chiarezza che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». E questo è un valore fondamentale di pace e stabilità che ci vede tutti allineati.

Il nodo culturale però é nell’errato sillogismo che ne consegue, ovvero che chi, per mestiere é chiamato a combattere all’estero – dove la libertà di altri popoli non é garantita, e spesso neanche l’incolumità o la sopravvivenza dei civili – viene automaticamente equiparato ad un fautore dello scontro armato.

I soldati, in Italia non sono considerati una risorsa indispensabile ed eccellente professionalmente, per la difesa della Patria e la protezione dei più deboli nei vari teatri di guerra all’estero, ma al contrario visti come sostenitori di scelte, più o meno condivisibili sul piano delle politiche internazionali. E questo errore di valutazione è profondamente determinato da una politica nazionale che si è sempre rifiutata di legittimare, a livello di comunicazione, azioni militari ostili ma indispensabili nei vari conflitti, come se, per combattere contro l’avanzata di Isis, o contro Al-Shabaab si potesse agire persuadendo i combattenti islamici a desistere con pacchi dono di zucchero e farina. Negare, politicamente, che il terrorismo islamico, aduso alla forza e alla violenza efferata come strumento di conquista territoriale, richieda interventi militari adeguati, e ingannare raccontando che l’Italia che partecipa ad una missione di quel tipo all’estero lo fa per esportare la pace o la democrazia, é una contro informazione sostanziale che non aiuta i cittadini a comprendere né l’ineluttabilità di certi interventi né il valore dei militari che, rischiando la propria vita, quelle azioni sono chiamati, necessariamente, a portarle a compimento.

Il tuo libro contiene un carteggio inedito di Oriana Fallaci con uno degli incursori del “Nono” Reggimento “Col Moschin”, Gino Giovallini. Ci racconti come sono andate le cose e cosa hai provato quando ti è stato mostrato? Soprattutto: cosa dice Oriana al nostro incursore?
Fu una rivelazione strabiliante, ancor più perché Gino Giovallini, un incursore del Nono con una lunghissima carriera di operatore all’estero e un’umanità rara, viveva quelle lettere preziose come una normale corrispondenza privata con una cara amica. Erano lettere che Oriana Fallaci gli aveva inviato dopo il loro incontro in Libano, durante la guerra civile degli anni ottanta, dove la più grande giornalista italiana era stata inviata a seguire il conflitto che poi raccontò nel suo noto romanzo Insciallah.

Gino mi mostrò casualmente questo carteggio, nel corso di uno dei nostri incontri in Toscana. Pochi giorni prima eravamo insieme in macchina e io commentai il suo navigatore sul cruscotto dell’automobile dando a lui lo spunto per raccontarmi di un giorno in cui gli apparse un numero telefonico lunghissimo e indecifrabile: era il suo amico ed ex incursore del Nono Paolo Nespoli, il nostro astronauta italiano, che lo chiamava dallo spazio. Nel raccontarmi della lunga e inossidabile amicizia che lo ha sempre legato a Nespoli è passato a citarmi quelle famose lettere della Fallaci, che fu determinante nel convincere Nespoli, incontrato in Libano, ad inseguire il suo sogno di diventare astronauta e aiutarlo a trasferirsi negli Usa per affrontare il duro percorso.

In quelle meravigliose lettere la Fallaci racconta a Gino degli studi di Paolo Nespoli, ma anche della genesi del libro che sta scrivendo e del fatto che Gino sarà uno dei personaggi del suo libro, perché le poesie che Gino scrive lei le ama moltissimo e desidera inserirle nel libro tracciando questo personaggio, che poi ritroveremo in Insciallah, di Gino il poeta.

Gli incursori del Nono non sono solo corpi speciali, ma anche mariti, figli, fidanzati. Come si riesce a conciliare la quotidianità con una vita privata condizionata da esigenze di servizio che hanno sempre la priorità? E non mi riferisco solo agli incursori, ma anche alla tua esperienza personale di donna, madre e giornalista che ha partecipato a missioni tra l’altro in Somalia, Iraq, Libia, Tunisia, nel Mediterraneo e nell’oceano Indiano. 

Molto spesso conciliare è difficile se non difficilissimo per chi vive gran parte della propria vita militare all’estero. Ed è difficile per le famiglie come per i soldati stessi. Anche solo pensare alle cose più semplici, come stare con i propri congiunti, nei momenti dell’anno in cui ci si riunisce come le festività é spesso impossibile. Partire per una missione é come entrare in un tunnel silenziato sul piano emotivo e logistico, le stesse famiglie lo sanno, non ci sono scambi di informazioni inerenti il lavoro e l’attività, ma ciò non vuol dire che non ci sia preoccupazione o tensione. Il rientro a casa é sempre, per le famiglie, il momento in cui si tira il famoso sospiro di sollievo.

Oggi, anche grazie ai social e alle videochiamate, riuscire a sentirsi e condividere quei rapporti che la distanza geografica e professionale rende difficoltosi è aiutato dalla tecnologia, ma ciò non vuol dire che questo stile di vita non sia alla lunga logorante nei rapporti interpersonali.

Giornalisticamente il discorso è sicuramente diverso: il tempo di permanenza nostro in queste aree è molto più breve, al massimo di qualche settimana. Le tempistiche però spesso impattano con organizzazioni familiari che devono sempre essere in grado di garantire l’andamento regolare della famiglia e questo, se ci sono figli piccoli, dipende molto da come si è in grado di essere supportati a livello familiare. Alla fine essere donne, mogli e madri, socialmente, è ancora oggi un bagaglio significativo nell’esercitare professioni impegnative, che richiede capacità organizzative millimetriche senza spazio all’improvvisazione.

Tuo marito è un diplomatico italiano, attuale Console Generale d’Italia a Londra. Quante volte ti hanno chiesto perché non ti bastava essere soltanto “la moglie di”? E quante volte questa è stata piuttosto un’ombra sui tuoi successi professionali?
Sarò estremamente sincera: mi é stato chiesto così tante volte, esplicitamente o, peggio, implicitamente, da aver fatto, in alcuni frangenti, oscillare anche le mie certezze, che la passione per il mio lavoro ha sempre reso granitiche.

Perché, diciamocelo francamente, siamo ancora sideralmente lontani da una società che ritiene i diritti alla realizzazione professionale paritetici nel contesto della famiglia e della genitorialità. Mi auguro che le future generazioni acquisiscano gli strumenti per superare con onestà questo divario ancora esistente, e solo mascherato dall’ipocrisia di fingere che non ci sia.

La carriera diplomatica, per quanto abbia cambiato culturalmente pelle in modo incisivo negli ultimi trent’anni, ha comunque una sua impostazione tradizionalista e culturale che ha richiesto grandi sacrifici, non solo alle famiglie di diplomatici ma anche a coloro che questa carriera l’hanno scelta da protagoniste. Ho avuto modo di conoscere, apprezzare e veder crescere professionalmente donne in diplomazia di altissimo spessore, pensiamo solo che venti o trent’anni fa avere un ambasciatore in una sede di primo piano come Washington che oggi si chiama Mariangela Zappia ed è una donna formidabile, sarebbe stato fantascienza. E altrettanto impensabile sarebbe stato qualche decennio fa ipotizzare un Segretario Generale della Farnesina dal nome femminile: Elisabetta Belloni, ambasciatore di grado che dal 2016 al 2021 ha ricoperto quell’incarico.

Cosa diresti ad una giovane donna che vuole intraprendere la tua carriera oggi?
Direi che il mondo del giornalismo è cambiato radicalmente in questi ultimi decenni grazie ad un’informazione che corre sulla rete a velocità vertiginosa e insegue il tempo reale degli eventi, molto spesso a scapito di accuratezza e professionalità. Per chi però ama il giornalismo, e non la proiezione di se stessi nella professione, i pilastri formativi e strutturali restano quelli di sempre: il giornalismo é un mestiere certosino, che richiede formazione e studio prima, aggiornamento e approfondimento continuo durante, e doti individuali: umiltà, etica, curiosità innata, capacità di scrittura e chiarezza espositiva ma anche e, soprattutto quell’intuito e quel senso della notizia che, la pratica e l’esercizio può affinare e migliorare ma che, a mio avviso, resta un’imprescindibile dotazione individuale. Tutti abbiamo il diritto di comunicare e di poterci esprimere, e ciò oltre ad essere sancito costituzionalmente, è uno dei pilastri delle libertà democratiche, ma comunicazione e informazione non vanno confuse. E l’informazione, cioè il giornalismo professionale, é un carico di responsabilità che dovremmo riprendere tutti in mano con maggiore serietà ed attendibilità.

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