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Pubblicato il 09/05/2021

RASSEGNA STAMPA- FRANCIA SCONFITTA NEL SAHEL – I POLITICI ITALIANI APRONO UNA BASE

La Stampa (ed. Nazionale)
sezione: PRIMO-PIANO data: 9/5/2021 – pag: 15

Il bilancio di 10 anni di guerra al terrorismo è disastroso . Si moltiplicano le richieste di abbandonare l’intervento militare L’unica via di uscita sarebbe l’avvio di una trattativa con gli islamisti. Mentre l’Italia si prepara a inviare un contingente

La disfatta francese nel Sahel tra miseria, odio e furia jihadista

Domenico Quirico — Tentazione? Provocazione? O semplicemente la constatazione che nel Sahel la guerra ai gruppi jihadisti condotta dalla Francia e dai suoi lacchè africani è fallita e che l’eterno sistema coloniale francese vacilla? Si moltiplicano dalla società civile dei Paesi dell’area, dai partiti politici, le richieste di abbandonare la inutile e sanguinosa strategia militare contro il terrorismo, indigesta ormai anche ai più rozzi palati, e avviare una trattativa, esplicita, ufficiale, con i movimenti jihadisti per un accordo che dia respiro alle popolazioni prese nelle grinfie della miseria e della violenza. È il modello afgano che si allarga, insomma: accettare la presenza e il ruolo dei gruppi radicali islamici nella società, eliminare la presenza militare straniera sentita come coloniale e inutile, accettare la realtà che la vittoria contro i jihadisti è impossibile anche per eserciti armati in modo sofisticato e con il controllo assoluto dell’aria.

Lo scopo dell’Italia
È singolare che l’Italia si appresti su questo sfondo a inviare un contingente militare che dovrebbe operare nella micidiale “zona delle tre frontiere” in supporto dei 5.000 soldati francesi e di regimi in rapida decomposizione, Stati falliti per corruzione e incapacità che la Francia maneggia patriarcalmente. Che presentano un desolante panorama di giunte golpiste, presidenti le cui elezioni sono contestate come frutto di brogli mostruosi, dove la elementare alternanza democratica si è trasformata in autoritarismi corrotti. Dovremo collaborare con eserciti come quello maliano che i rapporti delle Nazioni Unite, le Nazioni Unite!, disegnano come una feccia vandalica responsabile di massacri tra le popolazioni che dovrebbero difendere. E con gruppi di autodifesa a base tribale, sorti per disperazione, ma che spesso saldano i conti non con i jihadisti, troppo pericolosi da ammansire, ma con le altre etnie per secolari odi tribali o religiosi. Questi son luoghi dove la violenza non prevede purtroppo tempi morti da un decennio, e implica la propria escalation.

Sanno a Roma che alcuni di questi governi alleati, Mali e Burkina Faso, stanno trattando neppur troppo di nascosto, con le formazioni jihadiste compresi il “Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani” Gsim, legato ad Al Qaeda, e lo “Stato islamico del grande Sahara” Eigs, che è infeudato al califfato dell’Isis?


Qualcuno ha informato i pianificatori della missione «Takuba» che ci sono zone del Sahel dove sono in vigore tregue di fatto tra jihadisti e eserciti locali e che uomini e mezzi dei gruppi islamisti circolano liberamente in villaggi, piste e città in cambio di sospensione degli attacchi, assaggio dell’accordo afgano? La domanda si impone: che andiamo a fare nel Sahel se non gli ascari della Francia in una parte del mondo in cui i giovani vedono scorrere il tempo, e invecchiarli senza che abbiano vissuto? O forse lo scopo, non dichiarato, è sbarrare la via ai migranti, visto che i prezzolati libici battono la fiacca? Forse la rinnovata amicizia tra Parigi e Roma, compresa la consegna di attempati brigatisti, è legata anche a questa collaborazione militare, così necessaria all’incerta fortuna della Franceafrique.
Un sistema in crisi A mettere in crisi il sistema francese ha contribuito la morte di Idriss Deby, intrattabile autocrate ciadiano e «coraggioso amico» come lo ha definito un affranto Macron, che ne era il vero pilastro bellico. Deby era un maestro della diplomazia dei mercenari: dove c’era una rivolta, una guerra civile o santa, dal Centrafrica al Congo, dal Sahel alla Nigeria, Deby offriva e spediva commandos di agguerriti soldati. Un pronto intervento militare efficacissimo, “a la carte” a cui doveva riverenze internazionali e omertà sulle sue vaste porcherie interne. Ha salvato i francesi nel 2013 per l’operazione Serval che ansimava a riconquistare un terzo del Mali occupato dalla coalizione tra jihadisti e indipendentisti tuareg. Sono stati i micidiali commandos di Deby a riprendere l’Adrar des Ifoghas, l’inabitabile carso saheliano dove erano acquattate le “katibe”‘ di Al Qaeda. Poco prima di essere ucciso aveva appena concordato con i francesi l’invio, provvidenziale per Parigi, di 1200 uomini nel Sahelistan. Ora a N’Djamena folle esasperate contestano la successione familiare del deposta assassinato, e le sue “collaborazioni”, garantite da un truculento direttorio di generali.

Il bilancio disastroso
Il bilancio di dieci anni di guerra francese al terrorismo è disastroso. Da un lato la mobilitazione massiccia di forze militari, costi enormi: due miliardi di euro per un anno di guerra, che rendono il controllo di poco più delle capitali. Dall’altro duemila cinquecento morti in Mali, Burkina Faso e Niger nel solo 2020, due milioni di profughi, i gruppi jihadisti che controllano vaste aree, moltiplicano con accorta strategia le lotte tra le comunità, avanzano in direzione del golfo di Guinea, massacri che si moltiplicano e restano impuniti, in cui i civili sono uccisi più dai militari che dai jihadisti; e tragici effetti collaterali come la morte di 19 civili innocenti a Bounti in Mali per un errore dell’aviazione francese, che aumentano rabbia e umori anti occidentali.

Ha fatto fiasco anche qui il modello della guerra basata su droni e forze speciali che si è immancolita nel bombardare senza costrutto piccoli Paesi sottosviluppati. I francesi continuano a parlare di buoni risultati, rivendicano di aver salvato una seconda volta il Sahel.
Assonanze vietnamite: il punto pericoloso in cui la bugia diventa verità, e gli artefici di quella strategia ne sono intrappolati. La loro politica è fallita, ma non possono ammetterlo.
Trattare lo chiedono le 48 organizzazioni riunite nella “Coalizione civile per il sahel” nata lo scorso anno, che definiscono la strategia militare ormai inaccettabile per le popolazioni.

A negoziare con la guerra santa ormai è anche il presidente del Burkina Faso Christian Kaboré che pure durante la campagna elettorale si era dichiarato per la guerra totale ai taleban del deserto. Milleseicento morti e un milione di profughi lo hanno convinto a dissugarsi da propositi arcigni. Nella provincia di Soum a Nord ad esempio già si rispetta una tregua che garantisce libertà di movimento ai jihadisti in cambio della garanzia di non portare attacchi. Anche in Afghanistan è andata così. A Ouagadougou è tutto un sussurrare di “mediazioni”, “contatti”, con quelli che il presidente a febbraio ha definito «discussioni possibili con quelli là».
Il Mali ha fatto già nel febbraio del 2020 ha aperto discussioni con i gruppi jihadisti ottenendo la liberazione di quattro ostaggi.
Nel vertice con i 5 governi del Sahel Macron ha assicurato che la presenza militare francese non diminuirà, aggiungendo però una parolina: «nell’immediato». Ha poi parlato di «sahelizzare» la guerra. Chissà se anche gli italiani in arrivo fanno parte di questa nuova strategia.

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