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Pubblicato il 16/11/2014

RASSEGNA STAMPA- IL FRATELLO DI MANDOLINI AL TIRRENO : IL CORPO NON E’ DI MIO FRATELLO

Il Tirreno ed. NAZIONALE
sezione: LIVORNO data: 16/11/2014 – pag: 19
Il fratello del parà accusa
«Il corpo non è di Marco»

Dopo la riapertura dell’indagine: è un muro di gomma, vi svelo tutti i segreti

di Federico Lazzotti

LIVORNO «Mio fratello Marco non è stato ucciso sulla scogliera del Romito, ma altrove. E il cadavere che ci hanno riconsegnato una settimana dopo il delitto non è il suo. Ecco perché non vedo l’ora che la Procura di Livorno chiuda questa indagine farsa, così potremo finalmente riesumare il cadavere ed estrarre dal corpo il dna per dimostrare la nostra tesi». Flaviano Mandolini è il più grande dei fratelli maschi del parà della Folgore trovato morto a 35 anni la sera del 13 giugno 1995 lungo il Romito. Oggi ha 63 anni e risponde dalla sua casa di Castelfidardo, in provincia di Ancona. La voce che arriva dall’altra parte del telefono sa di colline marchigiane, rabbia e sospetti. Ha saputo che hanno riaperto l’indagine sul delitto di suo fratello, isolato il dna del presunto killer e la Procura ha l’intenzione di sottoporre centinaia di ex parà al test del dna per compararlo con quello dell’assassino? «A maggio ci hanno chiamato in Procura, a Livorno, e ci hanno comunicato che l’indagine sarebbe stata riaperta. Ma non ci hanno detto del dna. Io ho risposto che l’unica cosa che vogliamo sapere è chi ci sia davvero dentro a quella cassa. Invece fino a che l’inchiesta va avanti, tutto quello che riguarda mio fratello è considerato top secret. Qualche anno fa scrivemmo anche al presidente della Repubblica per cercare di avere l’ok per riesumare il corpo, ma lui rispose, molto gentilmente, che fino a quando c’era un’indagine aperta non si poteva fare nulla». Ma cosa la rende così sicuro che il cadavere non sia di Marco? «Bhe, io non l’ho mai riconosciuto. Come si fa a riconoscere una persona che è irriconoscibile? Le foto del cadavere fatte dopo il ritrovamento e il corpo che ho visto una settimana dopo, non sono la stessa persona. Nelle immagini si vedono sia la faccia che le mani di mio fratello ed erano entrambe intatte. Perché invece quando mi è stato mostrato all’obitorio le mani non erano intatte e la faccia non c’era più? Mio fratello aveva le spalle larghe, invece dentro la cassa erano strette. Aveva il polso spezzato, la spalla rotta. Cosa ci era passato sopra: un carro armato? Pensate che noi in famiglia abbiamo tutti undici dita. Una sorta di piccola sporgenza. Quando ho controllato la sua mano mancava proprio la parte dove c’era il soprosso, come se qualcuno avesse voluto nascondere le tracce. Al contrario nella foto del ritrovamento, Marco era vestito con una camicetta pulita, stirata, senza una goccia di sangue. Aveva addirittura un cellulare nel taschino. Come è possibile dopo un combattimento con 40 coltellate, avere la camicia pulita e il cellulare in tasca? Per me è una messa in scena. Tra l’altro quello è l’unico punto in 10 chilometri di strada dove si può arrivare con la macchina…». Quindi secondo lei è stato ucciso altrove? «Lo ha detto anche il procuratore che il sangue sulla scogliera non è di mio fratello. Marco in Somalia ha indagato sulla morte di due colleghi uccisi da una strana malattia. È possibile che sia stato contagiato attraverso l’uso di alcuni medicinali e che si siano voluti disfare del corpo. Ecco perché poi hanno tirato fuori la storia che avesse contratto l’Hiv». Eppure gli inquirenti sono convinti che il movente sia di tipo economico, legato agli investimenti effettuati da oltre 200 parà nella finanziaria Con.Fin, fallita pochi giorni prima del delitto. «Sono ipotesi battute anche 15 anni fa e che anche noi abbiamo seguito. Mentre la pista dell’omosessualità, oppure quella che Marco fosse l’amante di una moglie del comandante, sono state seguite solo per deviare l’inchiesta dall’ambito militare». Ma della finanziaria suo fratello le parlò? «Sì, me ne ha parlato. Mi raccontò che era stato uno degli unici a riprendere i soldi. Con le buone o con le cattive risolse il problema con quel promotore». Tra le ipotesi complottiste c’è anche quella di un collegamento con l’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del cameraman Miran Rovatin? «Lui ha avuto dei contatti con la Alpi che era stata uccisa sei sette mesi prima che facessero lo stesso con Marco. Quando ne parlammo, mi disse che la conosceva, ma non mi ha detto di che tipo di rapporti avessero. Anche i legali della famiglia della giornalista mi chiamarono per collaborare. Gli ho risposto di no, perché economicamente non potevo stargli dietro. Loro hanno speso molto, senza arrivare a niente». Il generale Bruno Loi è un’altra figura che spesso è stata tirata in ballo nel caso, visto il rapporto che ha avuto con suo fratello nella missione in Somalia.. «È venuto a trovarci un mese dopo il funerale, me lo sono trovato davanti a casa». E che cosa le ha detto? «Che in un anno in Somalia mio fratello gli aveva salvato la vita quattro o cinque volte. E che gli aveva insegnato a buttarsi con il paracadute. Che era più di un collega, era un amico. Marco sapendo le lingue era il suo portavoce. E quello che sapeva lui, sapeva mio fratello». Eppure la Folgore rispetto alla figura di Marco ha sempre reagito con distacco… «Diciamo che ha alzato un muro di gomme impenetrabile. Di tutti i colleghi di Marco, non se ne trova più uno, non risponde più nessuno. All’interno della Folgore di mio fratello non si ne deve parlare. Guai a fare il nome di Marco. Sa cosa dicono in caserma? Non nominare Mandolini, però quando esci di qui devi essere come lui. All’epoca dei fatti, nel 1995, dopo quattro, forse cinque mesi dal delitto, tramite i giornali abbiamo cercato di smuovere l’opinione pubblica. Abbiamo avuto telefonate anonime, ma non di minacce, ma ci dicevano di rassegnarci, di lasciare stare. Ma chi era davvero suo fratello? «Fino a quando non è successo il fatto sapevamo che Marco era un maresciallo istruttore della Folgore, ma non sapevamo la sua storia vera. Che per anni ha lavorato per i servizi, che era un personaggio. Dopo il fatto gente mi ha raccontato cose incredibili: sul campo era uno dei migliori che avevano». E in famiglia, invece? «Era un burlone, quando arrivava era allegria. Era quello che organizzava le feste al ritorno delle missioni. Fuori dal suo lavoro era un comico, un imitatore. Quando invece tornava a casa la prima cosa che faceva era venire dai suoi nipoti. Non diceva mai del suo lavoro, mai detto ade esempio di aver sparato un colpo in area». L’ultima volta che l’ho visto se la ricorda? «Era una settimana prima del delitto. Era qui a casa. Ma si vedeva che aveva dei problemi: non scherzava era stanco, era giù di morale. Anche la mamma gli ha detto di farsi fare una visita dal dottore. Così l’ho accompagnato io: ha fatto le analisi e dopo tre o quattro giorni sono arrivati i risultati e la risposta è stata che si trattava di stress. Il medico gli disse di riposare e mangiare bene. Il giorno in cui è partito per tornare a Livorno la mamma si è accorta la mattina presto che Marco stava sigillando una busta indirizzata al Ministero della Difesa: “Devo passare da Roma a consegnarla”, le disse. Qualche giorno dopo ci è arrivata la telefonata che era stato trovato il suo corpo».

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