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Pubblicato il 03/02/2017

IL MINISTRO PINOTTI AL CANTIERE ITALIANO DI MOSUL

PARMA- Lavori finanziati da banca mondiale e da fondi della cooperazione italiana , di provenienza pubblica. 480 militari italiani saranno al campo per due anni.
La Trevi incasserà 280 milioni di dollari.


IL SOLE 24 ORE del 3 Febbraio 2017

La diga «tricolore» dell’Iraq

La Trevi impiega 580 uomini (80 italiani): lavori per 280 milioni di dollari

MOSUL
L’acqua color ruggine del fiume Tigri che da trent’anni corrode pericolosamente gli strati solubili alle fondamenta della diga di Mosul (con il rischio di tracimare in un disastroso Vajont) sembra oggi la metafora più adeguata per spiegare l’insidiosa minaccia di Daesh che si è infiltrata a fondo nel tessuto sociale di queste zone, a Nord di Baghdad e controlla ancora militarmente Mosul Ovest, la parte vecchia della città.
Dal cantiere della ditta Trevi che, dall’aprile 2016, si è aggiudicata i lavori di consolidamento della diga protetta da un contingente di militari italiani il fronte della guerra contro l’Isis dista solo pochi chilometri, poco più di dieci. I tiri di mortaio e di razzi non si sentono più da un po’ di tempo anche perché gli strateghi di Daesh sanno di non potersi sottrarre facilmente alla “bolla di sicurezza” che, con droni e guerra elettronica, rende inoffensivo ogni eventuale attacco. Ma a Mosul Ovest i ponti sono minati e si scavano tunnel sotterranei per facilitare le vie di fuga.
Le forze speciali irachene sono ottimiste. Parlano di un assedio breve di poche settimane ma nella coalizione c’è la consapevolezza che, prima di giugno, difficilmente Mosul Ovest sarà liberata. Nel frattempo i 580 lavoratori (di cui 80 italiani) che lavorano alla diga entrano ed escono dal cantiere sempre perquisiti minuziosamente ma senza rallentare i turni di lavoro. Ogni tanto spunta fuori qualche kalashnikov, qualche arma bianca che viene subito sequestrata. Si cerca di ridurre al massimo il rischio di attacchi suicidi come spiega il colonnello Agostino Piccirillo, comandante del contingente composto ora da 470 bersaglieri della brigata Aosta.
È qui che il ministro della Difesa, Roberta Pinotti accompagnato dal capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano e dall’ambasciatore italiano in Iraq Marco Carnelos, conclude la sua visita al contingente italiano della coalizione anti Isis in Kuwait (componente aerea) a Baghdad ed Erbil ricevendo dalle autorità irachene e curde un forte apprezzamento per il lavoro svolto dall’Italia. Sotto una statua di cartongesso che ritrae il generale dei bersaglieri Lamarmora, il ministro Pinotti passa in rassegna il contingente prima di ascoltare il briefing dei dirigenti della Trevi.
Per tutti parla l’amministratore delegato della società, Stefano Trevisani che glissa con eleganza sui problemi ancora aperti per la distribuzione dei costi per la messa in sicurezza del cantiere. «Del resto – spiega Trevisani – abbiamo a che fare con ben tre governi, quello americano, quello iracheno e quello della regione del Kurdistan; all’Italia siamo infinitamente grati per la decisione di difendere con i militari il nostro lavoro e l’impianto che, nel 2014, fu perfino brevemente occupato dall’Isis». La Trevi partecipò già nell’86 al consorzio che costruì la diga. Già allora si sapeva che gli strati solubili presenti nel terreno avrebbero creato delle falle nella diga con la necessità di continue opere di manutenzione e consolidamento. Accantonata l’idea di costruire una nuova diga a monte in calcestruzzo, opera faraonica da 2 miliardi di dollari, il ministero delle risorse idriche irachene ha negli ultimi anni indetto tre gare internazionali vinte tutte e tre dalla Trevi, nonostante una forte (e non sempre leale) concorrenza dei francesi e dei tedeschi. Il lavoro attuale prevede un costo di circa 280 milioni di dollari finanziati per 200 milioni con un “soft loan” della Banca mondiale e con fondi della Cooperazione italiana.
La Trevi ha un lungo e unico curriculum nella messa in sicurezza di dighe, circa 180 in tutto il mondo compresa una negli Stati Uniti. E sono stati proprio gli americani a sollecitare un intervento della ditta italiana anche presso le autorità irachene. I lavori procedono speditamente. «A fine ottobre – aggiunge Trevisani – erano stati già scavati 15 km di tunnel per iniettare materiale cementizio nella diga, ora c’è un anno di tempo per concludere le operazioni che sono necessarie ma non certo definitive poiché questo tipo di lavori andrà eseguito per i prossimi dieci, venti anni».
Ma da settembre nella ditta operano anche due ditte subappaltatrici per lavori subacquei, la Drafinsub di Genova e la Nautilus di Venezia. Si tratta di calare sei subacquei specializzati in una campana fino ad oltre 50 metri. Da lì escono per riabilitare le paratie di acciaio che aprono i tunnel di scarico quando il livello dell’invaso supera la soglia di sicurezza e per verificare se si sono aperte o meno falle nella diga. I subacquei devono vivere dentro la “campana” per 28 giorni e, anche una volta ritornati in superficie, accettare una lunga decompressione nella camera iperbarica.
Eppure, sottolinea il ministro Pinotti, ci si è anche posti il problema di come evacuare questo personale per problemi di sicurezza legati a eventuali attacchi dell’Isis mentre i sub si trovano nella “campana”. «Le nostre forze armate – ha precisato la Pinotti – hanno progettato un sistema per trasportare la camera iperbarica in una zona sicura nel caso ce ne fosse bisogno; anche questo è un pezzo del Sistema Italia che dimostra la sua eccellenza: un’azienda come la Trevi leader nel mondo, soluzioni innovative come quelle per la camera iperbarica, il lavoro congiunto dei militari e del personale tecnico della diga. Siamo un grande Paese – insiste la Pinotti – che garantisce stabilità e sicurezza in questa parte del mondo».
Anche così, secondo il ministro Pinotti, si sconfigge il terrorismo: creando occasioni di sviluppo economico, togliendo l’acqua di cui si nutre l’Isis. Perché mentre la Trevi sta addestrando maestranze locali il contingente italiano del campo (che forse prenderà il nome dell’ultimo caduto in Afghanistan, il maggiore dei bersaglieri Giuseppe la Rosa) potrebbe una volta liberata Mosul diventare un altro centro di addestramento per la polizia locale in linea con la decisa volontà dei curdi di non delegare più la sicurezza alle milizie ma a forze regolari di polizia.

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