OPINIONI

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Pubblicato il 07/05/2013

FUCILIERI TRATTENUTI ILLEGALMENTE IN INDIA: LUCIDE RIFLESSIONI DI UN AMBASCIATORE

ITALIANI ALL’ESTERO -FUCILIERI ITALIANI IN INDIA- – ARMELLINI(AMBASCIATORE.):”DUE SCENARI…MA NUMEROSE QUESTIONI IRRISOLTE”

“I marò sono tornati in India, nella relativa calma dell’ambasciata italiana a New Delhi; i toni della polemica si sono smorzati e il gioco delle reciproche incomprensioni ed accuse conosce una tregua. Le indagini sono riprese con un andamento ondivago determinato anche dalla complessità del sistema giuridico e amministrativo indiano, il che non è necessariamente foriero di sorprese negative. Può essere utile, a questo punto, dare uno sguardo d’insieme alla vicenda, cercando di trarne qualche lezione per il futuro.” A fare la riflessione è Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, commissario dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) in un articolo pubblicato sulla newsletter dell’Istituto in cui il diplomatico affronta il duplice scenario nel quale può essere inquadrata la vicenda .

Innanzitutto, Armellina sgombra la strada ad una questione capitale: “Si è parlato molto negli ultimi tempi, e si continua a parlare, della possibilità più o meno concreta di una sentenza di pena di morte per Latorre e Girone. Come argomento tattico, può essere anche spendibile, soprattutto a fini interni, sebbene personalmente mi chieda se non rischi di tradursi in un parziale autogol.

La legislazione indiana prevede, è vero, la pena di morte, ma solo in casi limitati, di estrema gravità e “in the rarest of the rare” (nel più estremo fra i casi estremi). Una formula volutamente ambigua che riflette in parte la discussione che, dai lavori preparatori della Costituzione in poi, ha caratterizzato in India la questione della pena di morte. In effetti, la pena di morte è stata irrogata in casi estremamente rari. L’ultima esecuzione capitale riguarda il terrorista pakistano unico sopravvissuto al massacro di Bombay del 2008, il che dà la misura dell’effettivo campo d’applicazione di questa norma.

Immaginare che militari appartenenti ad un paese amico possano essere condannati a morte per atti di qualsivoglia natura significa ignorare i meccanismi decisionali e le linee di influenza accettate dai governanti di qualsiasi colore a Delhi.

Ancor più quando si tratti di militari appartenenti ad un paese Nato: forse non tutti hanno prestato l’attenzione che meritava alle affermazioni del ministro degli Esteri Khurshid quando, nel pieno della polemica sul mancato rientro dei nostri dal permesso natalizio, aveva consigliato prudenza nelle reazioni, ricordando come l’Italia fosse, appunto, un paese Nato e nei confronti di questa alleanza fosse opportuno rimanere prudenti. A dimostrazione forse del fatto che, se nei confronti dell’Italia una confronto duro non preoccupava più di tanto , con la Nato era tutt’altra cosa.

Insistere sul tema della pena di morte, potrebbe rafforzare negli indiani la percezione dell’Italia come di un paese poco informato, pesantemente condizionato da contraddizioni interne che ne indeboliscono la capacità negoziale sino al punto da legittimare la sufficienza con cui Delhi ha affrontato sin qui questa crisi, derubricandola in buona sostanza a un fatto minore di cui anche la stampa si è occupata in maniera abbastanza distratta, nonostante quanto si è letto da qualche parte in Italia.

L’India è uno stato di diritto, ma dà molto peso ai rapporti di forza. L’ Italia il cui Pil è tuttora maggiore di quello indiano – anche se forse ancora per poco – ha dato l’impressione, in tutta questa vicenda, di oscillare fra una lettura dell’India come un paese del terzo mondo da imbonire magari con qualche regalia o progetto di cooperazione in più, e il timore reverenziale da parte di una potenza in declino nei confronti di uno dei giganti emergenti della politica mondiale.

Emergente ma ancora non emerso del tutto; l’India questo lo sa e silenziosamente si chiede come mai un paese come l’Italia, che dell’India è stato un partner importante e rispettato, abbia seguito una linea così – come dire – buonista e rinunciataria. L’India parla inglese, ha un’amministrazione di scuola britannica ed è una democrazia. Ma non è il regno Unito, la sua democrazia risponde a dinamiche diverse da quelle dell’occidente.

Per capire come venirne a capo, più che sul pericolo della pena di morte, concentrerei l’attenzione sulla questione dei tempi. La magistratura indiana non è nota per la sua celerità (e del resto chi siamo noi per impartire lezioni in questo campo?) e la burocrazia è notoriamente inefficiente e corrotta. Essere passati dalla giurisdizione di uno stato a quella del governo centrale dell’Unione, è un fatto positivo: il vantaggio in termini di credibilità ed efficacia è certo. Così come il passaggio dalla polizia del Kerala a quella centrale – anche se si tratta della tanto temuta National Investigation Agency (Nia) – fa sperare in una maggiore serietà nel lavoro di indagine.

Detto questo, la tenuta di un processo come quello ai due marò presenta implicazioni molto delicate per il governo del Congresso. È risaputo come Sonia Gandhi, pur essendo padrona incontrastata del suo partito e la persona forte della politica del paese, abbia nell’origine italiana un tallone d’Achille. Non so quanto tale aspetto sia sempre pienamente compreso: gli indiani conservano forte, nonostante tutto, il complesso del loro recente passato coloniale e hanno nei confronti di tutto ciò che nella politica e nelle istituzioni sa di “straniero” un riflesso pavloviano di rifiuto.

L’italianità di Sonia è un’arma efficace a disposizione dell’opposizione, e poco importa che si tratti di una italianità virtuale, visto che l’interessata è ben attenta a non dare alcun appiglio in questa direzione e si tiene lontanissima da tutto quanto riguardi cose italiane. Eppure, basta la firma di un contratto importante con una nostra impresa, perché fioriscano illazioni e accuse di una “Italian connection” che coinvolga Sonia e la sua famiglia.

La prossima primavera si terranno in India le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Il governo del Congresso si appresta a questa scadenza con il fiato grosso. Si parla sottovoce di una malattia di Sonia che la metterebbe fuori gioco, indipendentemente dalla sua volontà di ritirarsi; la successione “dinastica” del figlio Rajiv suscita molti interrogativi: un po’ per la sua debolezza e molto per una certa stanchezza nei confronti della “famiglia” che con lui arriverebbe alla quinta generazione (una in più, tanto per fare un esempio bizzarro, di quelle di casa Savoia come Re d’ Italia).

Il partito del Congresso soffre del male tutto italiano della difficoltà di ricambio generazionale, accompagnata dall’usura crescente dei vecchi boiardi, e non ha altri candidati credibili da mettere in pista. In tutto questo, il partito nazionalista di opposizione Bjp lancerà con molta probabilità un candidato che, a suo modo, il ricambio lo incarna: quel Narendra Modi, primo ministro del Gujerat, cui si attribuiscono molte responsabilità per aver lasciato correre senza intervenire uno dei massacri più sanguinosi degli ultimi anni ai danni della minoranza musulmana.

Al contempo Modi si è mostrato un governante capace, in grado di attrarre investimenti nel suo stato e di promuoverne lo sviluppo economico. L’Ue aveva sino a poco fa mantenuto un divieto di ingresso per Modi nei paesi dell’Unione, proprio a causa dei fatti di Ayodha, ma lo ha revocato di recente e, da allora, la fila di ambasciatori e imprenditori europei alla sua porta ad Ahmedabad non ha fatto che allungarsi. È una campagna elettorale tutt’altro che facile, insomma, quella che si prospetta per Sonia Gandhi e la sua coalizione, e il processo ai due marò italiani è una complicazione in più, da gestire con la massima attenzione.

Gli scenari possibili sono a mio avviso due: una forte accelerazione dei tempi, in modo che tutto possa concludersi prima dell’estate e lasciare lo spazio di poco meno di un anno per calmare le acque della polemica. Oppure la scelta di puntare sulla complessità dell’indagine e su inefficienze sempre invocabili, per far slittare il tutto a dopo le elezioni del 2014, così da gestirne gli sviluppi con calma a vittoria – sperabilmente – ottenuta.

Nel primo scenario, una sentenza lieve potrebbe scatenare un’ondata di accuse contro una decisione vista come frutto di un inciucio favorito da Sonia Gandhi e dalla sua cerchia, ai danni degli interessi legittimi di cittadini indiani, privati della loro dignità, in nome di logiche politiche oscure, e così via.

Una sentenza severa potrebbe, per contro, riaprire la ferita dei rapporti con l’Italia, che Delhi credo sia sinceramente determinata, prima o poi, a chiudere. Una sentenza accompagnata dal trasferimento in Italia dei due marò per espiare da noi la pena, in forza della Convenzione bilaterale di assistenza giudiziaria, potrebbe dare a sua volta problemi: è probabile che, una volta da noi, a Latorre e Girone verrebbe riconosciuto un trattamento quanto più possibile di favore. Con il risultato di far ripartire le accuse di cui sopra, mentre la scadenza elettorale si farebbe più vicina.

Il secondo scenario farebbe tenere aperta ancora a lungo una questione su cui, prima o poi, qualche altro paese potrebbe chiedere chiarimenti e che in ogni caso rischierebbe di creare difficoltà: basti pensare che di incidenti simili nel mare intorno a Sri Lanka ne sono a quanto pare avvenuti numerosi, anche con il coinvolgimento di unità indiane in scontri a fuoco.

Per quanto sgradevole, il secondo scenario potrebbe tuttavia presentare sotto il profilo della prossima campagna elettorale rischi minori; e di questo il governo indiano terrà certamente conto. Non vorrei sembrare pessimista ma, viste anche le caute aperture del ministro Khurshid riportate dalla stampa italiana, un pressing da parte nostra per chiedere di accelerare i tempi si impone. Se non altro per capire se, al di là delle buone parole, la volontà sia davvero quella di fare presto. E attrezzarci di conseguenza.

Sullo sfondo rimangono numerose altre questioni, che attendono risposta. Non è stato chiaramente stabilito quale sia stato il ruolo del Comandante della Lexie e del suo armatore nella decisione di fare rotta verso il porto. Se le voci sussurrate qua e là, di forti interessi commerciali che si pensava di salvaguardare accondiscendendo alle richieste indiane senza indugiare troppo, abbiano una qualche validità.

Cosi come non si è mai veramente capito se nella stessa zona ci fosse, alla fonda, una nave greca vittima anch’essa di un attacco pirata e svanita poi nel nulla. Su questa coincidenza singolare sono fiorite leggende e voci di complotti, accordi sottobanco con polizie corrotte e quant’altro: tutte voci prive di ogni valore in assenza di uno straccio di prova, ma sapere cosa ne sia stato di quella nave greca, e cosa le sia realmente accaduto quella sera, potrebbe non essere inutile.

Assai più grave mi sembra il fatto che, a un anno dall’incidente, la normativa che regola l’impiego dei nostri militari con funzioni di scorta antipirateria su navi mercantili, non sia stata aggiornata. Quando questo lavoro lo fanno i contractor privati, le cose sono chiare, così come i rischi e le responsabilità degli interessati.

Quando si passa all’impiego di membri delle forze armate, le cose cambiano: lo stesso fatto che il loro lavoro venga pagato dagli armatori non agli interessati ma al ministero della difesa – con un parallelo indiretto con la situazione dei contractor – rischia di creare ambiguità che non possono essere più tollerate.

La catena di comando deve essere messa in chiaro una volta per tutte: ne ha scritto autorevolmente, fra gli altri, su queste pagine Natalino Ronzitti. Siamo fortunati che a tutt’oggi l’episodio della Lexie sia rimasto isolato. Ma è bene ricordare che altri simili potrebbero capitarne in ogni momento.

Un’ ultima considerazione sull’eventualità, che temo probabile, che Latorre e Girone vengano condannati. Non importa a che tipo di pena: resterebbe il fatto che due membri delle forze armate italiane, in servizio di Stato nell’ambito di una campagna voluta dall’Onu, subirebbero una condanna penale e che questa condanna l’Italia avrebbe di fatto accettato. C’è davvero da riflettere a fondo su cosa ciò significherebbe in termini di capacità del nostro paese di avere una proiezione internazionale all’altezza non so se delle sua ambizioni, ma di certo del suo ruolo e delle sue responsabilità. conclude Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia e commissario dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO)

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